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La sinistra e la Grecia

La Grecia andata alle urne pochi giorni fa, per la seconda volta in pochi mesi, ha visto la riconferma del premier Alexis Tsipras che ancor meglio di come annunciavano i sondaggi, ha trascinato  la sua compagine politica, Syriza,  permettendole di riconquistare il primato politico con un inaspettato 35.5% dei voti, staccando di molto quello che sulla carta era considerato il principale ostacolo, Nuova Democrazia, ferma al 28,1%.

I veri vincitori sono stati però gli assenti, considerato la crescita dell’astensionismo di massa. La stessa Syriza in termini assoluti è calata nei consensi, avendo perso circa 300.000 preferenze rispetto alla precedente tornata.

 “Questo è un mandato di quattro anni, la nostra è una vittoria del popolo”, ha affermato Tsipras, dal palco, subito dopo la conferma della vittoria. “Il nuovo governo sarà un governo di lotta, pronto a dare battaglia per difendere i diritti del popolo”. Ufficialmente si è insediato nella tarda notte di ieri, dunque, il secondo esecutivo, con una novità: non è stata attribuita la guida di alcun dicastero a Panos Kammenos, leader di Anel, che nel primo mandato era stato al vertice del ministero della  difesa. Riconfermato alle Finanze Euclid Tsakalotos, l’economista, succeduto a Varoufakis, che ha firmato il pesante memorandum tra la Grecia ed i creditori internazionali. Quello che il premier greco non dice, però, è che il suo governo disporrà di margini di manovra ancora più labili del precedente, visto che già l’Unione Europea è tornata a premere chiedendo le riforme e considerato il fatto che a breve sui Greci si dispiegheranno gli effetti del programma “lacrime e sangue” previsto dal terzo memorandum, approvato da Tsipras e all’origine della spaccatura del suo partito.

Comunque vada Syriza ha fatto le proprie scelte, ora bisogna chiedersi cosa farà il resto della sinistra europea ed italiana.

Dopo la firma del memorandum, apparsa come un retrofront rispetto al referendum che aveva bocciato a larga maggioranza un accordo anche meno pesante, il popolo di sinistra sembrava essersi diviso tra strenui difensori di Tsipras e suoi accusatori; da lì ecco la diatriba tra chi, addirittura, accosta la sua resa a quella eroica leninista e chi invece e nemmeno tanto flebilmente, lo accusa di tradimento. Anche da noi si è calcata la mano e sono fioccati gli accostamenti con Renzi.

Francamente Tsipras è lontano anni luce dal nostro Presidente del Consiglio e per diversi motivi: diversamente da Renzi, fin dall’inizio si è battuto, sulla base di un forte mandato popolare, contro le politiche di austerity, dichiarando la resa solo dopo essere stato messo con le spalle al muro, costretto nei fatti, a scegliere tra l’Unione Economica Europea o il ritorno alla dracma; si è poi dimesso, rimettendo il giudizio sul suo operato nelle mani del popolo. Renzi dal canto suo non è stato eletto dal popolo, bensì nominato dal Presidente della Repubblica per il solo fatto di aver vinto le primarie del Partito Democratico e inoltre, mai, né lui né i suoi predecessori, hanno osato contrastare le politiche di austerità o alzare la voce contro i trattati economici in ambito europeo.

Una delle analisi più lucide che ho letto sulla marcia indietro di Tsipras è stata elaborata da Dino Greco, esponente di Rifondazione Comunista che con un aneddoto ha paragonato la vicenda greca a quello che spesso avviene nelle battaglie sindacali.

 “Capita, talvolta, nella gestione di una vertenza difficile” afferma Greco “caratterizzata da lotte e scioperi duri e prolungati, che il sindacalista che la guida si convinca (o tema) di non farcela, di non avere più frecce al proprio arco e avverta come insuperabile la forza del padrone che mette in atto rappresaglie, minacciando di chiudere la fabbrica. Come uscirne, considerato che la parte più combattiva dei lavoratori non demorde?

La soluzione è quella di rimettere loro il giudizio, attraverso un pronunciamento che serva a decidere se continuare la lotta o a chiudere purchessia lo scontro ingaggiato.

Il sindacalista sa che in questi frangenti, sotto la sferza del ricatto padronale, la parte dei lavoratori che sta sempre col padrone si aggiunge quella meno combattiva e che anche nel proprio fronte, fiaccato dalla durezza del conflitto, si possono determinare degli smottamenti.

Il sindacalista pensa, in definitiva, che perderà il referendum e che dovrà capitolare, ma che così salverà la coscienza perché saranno stati i lavoratori a deciderlo. Tuttavia, quando questo accade, dentro quel sindacalista, qualcosa si rompe, irrimediabilmente”

Secondo Greco questo era un po’ il pensiero di Tsipras alla vigilia del referendum sull’accordo proposto dall’U.E.; referendum, il cui risultato nonostante la vittoria massiccia dell’Oxi, è stato poi inaspettatamente disatteso. Tsipras dunque non un traditore, ma uno sconfitto da un’Europa avida e ancorata nelle proprie posizioni di austerity; un’Europa banco-centrica in cui predomina l’interesse economico e politico dello stato più forte, la Germania; un’Europa, dunque incurante e pronta ad approfittare delle debolezze strutturali delle economie dei paesi mediterranei.

Tsipras ha fatto il l’errore (che sta reiterando) di voler combattere delle battaglie impari su un campo  avverso, dove ogni possibilità di vittoria rasenta lo zero e di non aver contemplato soluzioni alternative.

Col senno di poi, le posizioni del Kke appaiono lungimiranti. Il partito comunista greco, infatti, così motivava la propria astensione al referendum: durante la sessione del parlamento del 27 giugno, la maggioranza del governo SYRIZA-ANEL ha respinto la nostra proposta sulle seguenti questioni prima del giudizio del popolo greco tramite referendum: “no alle proposte di accordo tra Governo Greco/Troika (Unione Europea-Banca Centrale Europea-Fondo Monetario Internazionale); uscita dall’UE; abolizione del Memorandum e di tutte le leggi applicate dei governi Nea Dimokrathìa-PASOK).
Con questa presa di posizione, in realtà, il governo ha dimostrato di voler ricattare il popolo greco ad approvare la sua proposta al posto di quella della Troika, che è – di fatto – l’altra faccia della stessa medaglia.

Che si possa concordare o no col KKE, la vicenda greca ci ha dato una lezione: cambiare le politiche economiche europee dall’interno si è dimostrato utopistico. Se per uscire dal guado l’unica alternativa è abbandonare la moneta unica per ritornare alla moneta nazionale o ricercare altre exit-strategy, come hanno suggerito anche illustri economisti, beh vale la pena di rischiare, se non si vuole condannare intere economie come quella greca, spagnola, portoghese o italiana che siano, ad un declino permanente.  Syriza, è risaputo, non contemplava e non ha mai contemplato nei suoi piani la rottura con l’unione monetaria, ma consci di ciò che è accaduto, urge che la sinistra in Europa pensi a nuove strategie per uscire dalla crisi e dalla morsa dell’austerity, partendo dall’assunzione che le politiche della troika non sono modificabili dall’interno del sistema stesso. 

In Italia, in quel che resta della sinistra però tale analisi sembra non affermarsi.

In Parlamento tutt’ora i più radicali sono gli esponenti vendoliani che sul rapporto col P.d. e financo col P.s.e. sono stati spesso ambivalenti: il loro leader in tempi non sospetti affermava di essere “con Tsipras ma non contro Schultz”. Oggi Vendola sembra anche aver dimenticato la partecipazione del proprio partito alle primarie del P.d., occasione nella quale veniva sottoscritto il patto “Italia Bene Comune” che prevedeva la ratifica di accordi europei tra cui il fiscal compact, che oggi il suo stesso partito afferma di avversare.

Naufragato il progetto l’Altra Europa con Tsipras, Rifondazione (la cui maggioranza resta fedele a Syriza, nonostante tutto) intende proseguire sulla linea europeista, cercando di convergere in un gruppo antiliberista con S.e.l (a sua volta tentato da un ritorno di fiamma verso il P.d.), con Civati e  Fassina, fino a ieri alleati di Monti e oggi, redenti e combattivi insieme a un Landini che ogni tanto timidamente, si affaccia alla vita politica.

A margine proliferano un certo numero di partiti comunisti, divisi tra loro e per forza di cose ininfluenti; per non parlare degli appelli all’unità comunista o anticapitalista che restano inascoltati o vengono sistematicamente rispediti al mittente. A completare il quadro, le politiche confusionarie proposte dal Movimento 5 Stelle che a sinistra ha fagocitato tanti voti ma che non vuole o non sa mai proporre una critica radicale al sistema economico capitalista in quanto tale. Proprio il movimento di Grillo sembra prediligere una politica contro la casta, mentre sul fronte economico pare più lungimirante, chiedendo l’uscita dall’euro senza però definire un programma alternativo serio e continuando nel frattempo a crogiolarsi nei seggi del Parlamento europeo, accanto alla peggior destra nazionalista e xenofoba. Un movimento forte nei consensi quello di Grillo, che fa man bassa tra gli indecisi e tra gli elettori di destra e anche e forse soprattutto, di sinistra, questi ultimi rimasti orfani di una leadership autorevole e delusi da  proposte politiche spesso prive di contenuti; ma in politica si sa, “spesso l’altro è forte perché è la tua parte a essere debole”.

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