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Capitalismo e democrazia, l’impossibile connessione

Osservatori attenti e di lunga esperienza quali Marc Lazar e Ilvo Diamanti hanno posto in evidenza come, nella fase di modernità della comunicazione di massa, stia rivelandosi impraticabile la connessione tra capitalismo e democrazia e come ci si stia avviando verso forme di nuovo autoritarismo.

Scompaginamento sociale, crisi del modello di partito, personalizzazione, individualismo competitivo paiono rappresentare la frontiera di una dimensione di vero e proprio “abbattimento” dei meccanismi storicamente collaudati della rappresentanza , del confronto, della decisionalità.

La struttura decisionale delle politiche pubbliche dell’Unione Europea, dopo il fallimento del tentativo di costituzionalizzazione avvenuto all’epoca dei Trattati di Nizza e di Lisbona, è apparsa, per un certo periodo, il “punto – limite” di un assestamento del processo di riduzione della democrazia novecentesca di stampo parlamentare, ma adesso ci si sta inoltrando per sentieri apparentemente non ancora battuti: l’U.E., cresciuta a dismisura e con un Parlamento pletorico e dalle prerogative vieppiù incerte, sta lasciando via libera a esprimenti di inediti accentramenti di espressione del potere, tra i quali il “caso italiano” assume sicuramente un ruolo di preminenza, quasi un modello per altre situazioni.

La situazione italiana si sta consolidando sulla base di una complicata “crisi di transizione” che ha attraversato il Paese per oltre 20 anni, mutandone i connotati politico – istituzionali così come questi erano stati introdotti dalla Costituzione del ’48.

Un quadro che, nel periodo del dopoguerra, era stato resto anomalo dall’impossibilità di un’alternanza al governo per via della presenza dell’opposizione comunista, fortissima sul piano della presenza politica ed elettorale ma legata indissolubilmente alla logica della divisione del mondo in blocchi.

Maastricht e la caduta del Muro segnarono una differenza di fase che fu affrontata con taglio incerto, in un tentativo non riuscito di bipolarismo e dominato in sostanza da un originale populismo personalistico che ha attraversato un intero periodo storico marchiandone a fondo l’identità sociale nel segno del consumismo individualistico e dello strapotere della televisione quale soggetto formativo dell’intera opinione pubblico.

Non hanno funzionato, in Italia (ma nel complesso del quadro dell’esperimento europeo) né la “democrazia del pubblico” di Manin, né la cosiddetta “democrazia deliberativa” e tantomeno la spinta a un nuovo assetto ed equilibrio istituzionale nel segno del federalismo.

Il risultato, sul piano politico, è sotto gli occhi di tutti: l’elettorato attivo ridotto al 50% degli aventi diritto, l’elettorato passivo appannaggio di un ceto composto da cercatori di multiruolo in buona parte d’appoggio a una corruzione imperante e  percepita come ben più estesa di quella che era stata scoperta con Tangentopoli, una parte cospicua di coloro che sono rimasti a partecipare nella politica anche soltanto attraverso una semplice espressione di voto che si affidano a soggetti di stampo precipuamente populista all’insegna della indifferenzazione della protesta.

Uno smarrimento complessivo molto grave e che nulla lascia presagire di buono per il futuro, nel senso che sempre di più si è incuneata l’idea del decisionismo solitario, esercitato in indifferenza alle proposizioni sociali più evidenti, in nome dell’esercizio di un potere conservativo delle logiche e dei privilegi dei tradizionali “lorsignori”.

In questo quadro la sinistra appare completamente smarrita e brancola non oltre il richiamo a una qualche idea di più o meno convinto recupero del keynesismo e senza alcuna ipotesi di elaborazione di una forma politica in grado di riaggregare spezzoni di società elaborando così un progetto di reale alternativa.

In verità quello che manca, in primo luogo, è una proposta che fronteggi il quadro di svillaneggiamento della democrazia rappresentativa cui si accennava all’inizio: un dato sicuramente limitato rispetto alla necessità di operare in funzione della “abolizione dello stato di cose presenti”, ma in questo momento fondamentale da affrontare e da mettere in campo.

Si può provare allora ad avanzare due elementi di proposta recuperando questioni che fanno parte dell’identità e della storia della sinistra italiana.

Il primo punto riguarda la “democrazia progressiva”: il ritorno cioè all’idea del cioè di uno Stato democratico avanzato basato sul riconoscimento non solo delle libertà e dei diritti politici, ma anche dei diritti sociali, della proprietà pubblica e cooperativa accanto alla proprietà privata, e della programmazione economica. Una democrazia che potremmo definire “aperta”.

Un punto fondativo, nella sostanza, rispetto alla regressione che stiamo attraversando, sulla base del quale tornare a esercitare una funzione egemonica sul terreno politico e su quello culturale: punto fondativo di un’aggregazione sociale fondato sulla lettura concreti delle contraddizioni operanti nella realtà, rifuggendo dai gravi pericoli di politicismo che stanno segnando il periodo.

Attraverso l’adozione del concetto di egemonia si potrà allora comprendere al meglio la necessità di operare in un contesto di “rivoluzione passiva” (esattamente quello dentro al quale ci stiamo trovando) e di conseguenza di “guerra di posizione” verificando anche  il modificarsi nel rapporto tra struttura e sovrastruttura, al riguardo del quale la sinistra dovrebbe ritrovare anche la capacità di sviluppare un’aggiornata “teoria delle fratture”.

In sostanza un’operazione di opposizione per l’alternativa rispetto al processo di assunzione di dominio in atto di cui il PD appare il soggetto portante, e di nuova relazione tra la politica , la cultura, la progettualità . Un nesso  il cui senso appare, oggi come oggi, completamente smarrito

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