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Fra sciiti e sunniti guerra di “interessi”. Poco religiosi

Suonano i tamburi di guerra, protagonisti due Stati, riferimento dei principali filoni religiosi dell’Islam: Iran e Arabia Saudita. Si grida alla guerra di religione (l’Europa ne sa qualcosa), questa volta tutta in chiave musulmana, ma dietro ai contrasti teologici si nasconde ben altro, ovvero interessi economici, mire regionali e infine strategie geopolitiche che trovano in altri soggetti i veri burattinai.

Pensare quindi che ci troviamo di fronte ad una contesa teologica, che trae origine dall’eredità politica e religiosa del Profeta, è fuorviante. Lo scontro che oppone Riad a Teheran non ci parla delle ragioni di ‘Ali  (che ha originato gli sciiti) o di Abu Bakr (sunniti), bensì di milioni di persone in carne e ossa, della loro quotidianità e degli interessi e strumentalizzazioni che si muovono alle loro spalle.

C’è però un elemento che trae origine dalla storia delle due correnti islamiche e che ancora oggi ha la sua influenza. I sunniti, da sempre maggioranza nel mondo islamico, hanno nel corso dei secoli represso i loro “fratelli sciiti”, costringendoli a vivere in condizioni miserrime ai margini delle capitali arabe. Una frattura religiosa e sociale che non si è mai colmata. Per queste masse la rivoluzione iraniana di Khomeyni alla fine degli anni Settanta ha rappresentato una speranza di riscatto, la possibilità di ricontrattare il proprio status sociale. Emblematica in questo senso è la storia del Libano. 

Ma questa aspirazione di riscatto, a parole anche al centro delle tanto invocate “primavere arabe”, mette a rischio antichi equilibri, che vedono al potere monarchie corrotte e avide, disposte a tutto pur di conservare il proprio potere, incluso finanziare l’Isis e reprimere violentemente qualsiasi forma di opposizione interna.

Gli interessi economici in campo infatti sono enormi: ricchezze energetiche, relativi petrodollari, oleodotti e gasdotti in cui transita linfa vitale per l’Occidente. I sauditi (intesi come famiglia Saud) vogliono preservare la loro influenza regionale, avere il controllo sui Paesi del Golfo fino a Sana’a (Yemen) e imporsi come unici attori fra i grandi produttori di petrolio e gas e l’Occidente e l’Africa; la stessa condanna a morte dello sceicco al-Nimr va letta considerando la sua influenza sulla grossa minoranza sciita nella provincia del Qatif, ricca di riserve petrolifere. Uno scenario che non dispiace né agli Usa né all’Europa.

L’Iran, da parte sua, rivendica il ruolo storico di potenza egemone sull’area e di difensore della minoranza sciita. Un Iran che dopo anni di totale isolamento vede la possibilità concreta di rientrare in gioco dopo la firma degli accordi sul nucleare e dopo il riconoscimento del suo ruolo in Iraq e in Siria.

I Saud, dopo aver assistito alla messa in discussione della loro leadership sul mondo sunnita da parte della Turchia di Erdogan (ridimensionato con l’eliminazione di Morsi in Egitto) e soprattutto dopo l’aspra contesa petrolifera con gli Stati Uniti – che con Obama hanno tentato di emanciparsi dal “cappio mediorientale” attraverso il petrolio ricavato dalla frammentazione delle rocce (tentativo fatto naufragare con l’immissione sul mercato mondiale di una grande quantità di greggio che ha fatto crollare il prezzo al barile) – hanno temuto di perdere definitivamente il loro ruolo a causa delle accuse (di circostanza) da parte dell’Occidente di aiutare l’Isis.

Ecco allora che il portare alle stelle lo scontro con gli iraniani consente alla monarchia wahabita di evitare sorprese spiacevoli e di poter andare sino in fondo in operazioni, come quella in Yemen, sulla quale la nuova generazione dei principi regnanti si gioca il futuro. Il tutto aspettando le prossime elezioni Usa, con la speranza che vinca un repubblicano, storicamente in sintonia con le posizioni e gli interessi sauditi. 

Una contesa tutta economica, quindi, non propriamente di religione, che ha già avuto le sue vittime, come ben sanno Iraq, Siria, Barhein, Libano e Yemen, e i suoi complici.

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