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Cara Anpi, l’antifascismo è vivo se non è autoreferenziale

Si terrà a Rimini dal 12 al 15 maggio il 16° congresso nazionale dell’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani d’Italia. Per la discussione, che nelle sezioni si inizia in questo mese, è stato approntato un corposo documento, più di quaranta pagine, che spazia dal quadro mondiale alla politica italiana, per incentrarsi sui «compiti» futuri dell’associazione. Un documento con ogni evidenza scritto a più mani, con non poche sovrapposizioni e qualche contraddizione tra le diverse parti, per un congresso definito di «continuità» e non di «svolta».

Nell’analisi del contesto internazionale dominante è la preoccupazione per «l’esplosione dei peggiori fondamentalismi» da connettersi alla «profonda crisi mondiale» come crisi anche di civiltà, con il restringimento degli spazi di «democrazia», a Est e a Ovest, con l’avanzare di governi di destra nel cuore dell’Europa (si pensi all’Ungheria e alla Polonia), il ripresentarsi sulla scena di movimenti neonazisti (rilevante il caso ucraino), lo scatenarsi di ondate razziste e xenofobe a fronte dei giganteschi fenomeni migratori alimentati dalle guerre in Africa e nel Medio Oriente. Un quadro condivisibile nelle sue linee generali pur nell’omissione della centralità della vicenda palestinese, colpevolmente ignorata.

La realtà politica italiana è invece affrontata evidenziando in primis la decisa opposizione dell’Anpi alle riforme costituzionali e alla nuova legge elettorale che rischiano di svuotare il Parlamento e consegnare il Paese a un «padrone». Il timore di una deriva verso il non-voto e la non-partecipazione sono sottolineati con forza, così la «degenerazione della politica» e la sua connessione con la «delinquenza organizzata», che fanno della «questione morale una tra le più fondamentali». Il tutto come una breve introduzione (non più di otto pagine) al documento vero e proprio.

Pur nel massimo rispetto dell’Anpi, della sua storia, con la speranza di una discussione utile e feconda che travalichi l’associazione stessa, data la sua autorevolezza morale e rilevanza nel campo dell’antifascismo, senza supponenze di sorta da parte dei suoi gruppi dirigenti, come accaduto in altre occasioni indisponibili se non sordi a un confronto vero, ci permettiamo di avanzare alcuni rilievi di fondo al testo proposto, a partire dall’autoreferenzialità.

L’Anpi che esce da questo documento sembrerebbe concepire se stessa come unica e assoluta detentrice del monopolio dell’antifascismo. Come se non vi fosse altro, quando lo svilupparsi di realtà e movimenti, soprattutto giovanili, impegnati su questo terreno, è andato crescendo in tutto il Paese, da Nord a Sud, impattando spesso con la stessa associazione dei partigiani, non di rado sollecitandola o costringendola all’azione. Pensare di ignorarlo o continuare a farlo, rappresenterebbe un grave errore, come demonizzare (pagina 32 del documento) le «cattive compagnie da evitare», chiaramente riferito ai giovani antifascisti di questi movimenti. Un atto di chiusura miope.

Quest’area antifascista cresciuta fuori dall’Anpi, ricca di potenzialità, articolatasi in collettivi e comitati, già bollata a vario titolo come «antagonista» (definizione che accomuna ormai chiunque sia al di fuori del Pd), non solo è un dato di fatto, ma anche la reazione positiva a profondi mutamenti intervenuti, dalla crisi dei partiti della sinistra (in alcuni casi al suo mutamento genetico) alla riduzione dell’antifascismo a pura retorica celebrativa (che è cosa ben diversa dal coltivare la memoria), alla presa d’atto dell’inefficacia del contrasto ai nuovi fenomeni razzisti e neofascisti, rivolgendosi unicamente alle istituzioni.

L’Anpi in questo quadro non ha, per altro, ancora colto la trasformazione in atto nella natura stessa delle istituzioni repubblicane, sempre meno corrispondenti alla Costituzione antifascista e impegnate nel garantire il rispetto di leggi ordinarie, quali la legge Scelba e la legge Mancino, deputate al perseguimento delle organizzazioni e dei comportamenti di stampo fascista, come dell’incitamento all’odio razziale, etnico e religioso. Un mutamento che non viene percepito nella sua valenza epocale.
Nel documento congressuale si scrive della necessità che «lo Stato diventi realmente antifascista».

Senza nulla argomentare riguardo questa affermazione, né offrire una chiave di lettura sul piano storico, ma soprattutto indicare il modo per perseguire questo obiettivo. Emerge una visione del rapporto fra istituzioni e antifascismo per così dire statica, priva di una dialettica conflittuale, come se nulla fosse accaduto in questi settant’anni. Come se non ci fossero mai stati movimenti che avessero costretto le istituzioni a essere più antifasciste.

L’Anpi, per altro, ne è stata protagonista assoluta. Pensiamo al luglio Sessanta e agli anni della strategia della tensione, con la mobilitazione popolare in grado di far cadere governi o sventare progetti eversivi, fino a costringere (tra il 1973 il 1976) le istituzioni a sciogliere le formazioni nazifasciste più compromesse come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Ora siamo a un ripiegamento sostanziale con istituzioni sempre meno antifasciste. Questo, il punto.

A maggior ragione bisognerebbe ragionare attorno al movimento che si vorrebbe mettere in campo. Il concepire, da questo punto di vista, se stessi come un’istituzione fra le istituzioni e non come uno strumento per dar vita a un articolato movimento, rappresenta un limite non da poco. L’orizzonte dei rapporti, indicato nel documento (pagina 32), ristretto alla sola Arci, Cgil, Auser (l’Associazione per l’invecchiamento attivo) e Miur (il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), dice di questa impostazione che rischia davvero di fare dell’Anpi una realtà che, al di là della propria storia e dei propri numeri (120mila iscritti e tremila sezioni), si riduca a custode del solo passato incapace di crescere come strumento efficace nel presente. Proprio come piacerebbe al Pd.

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