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L’Unione Europea tra crisi e contrattazione: scatto in avanti o arretramento?

A dar retta agli allarmi e alle previsioni funeste di analisti e leader politici, negli ultimi anni l’Unione Europea avrebbe dovuto saltare dieci, venti, cento volte. Ad ogni polemica, ad ogni conflitto, ad ogni screzio tra i paesi che hanno dato vita a un progetto descritto come sempre in procinto di fallire, più di qualcuno sistematicamente recita il ‘de profundis’ dell’unificazione europea.

Peccato che l’esperienza concreta degli ultimi anni abbia dimostrato che di fronte ad ogni crisi, ad ogni scossone che ha coinvolto l’Ue, il suo establishment abbia reagito spostando in avanti l’asticella del livello di centralizzazione e di gerarchizzazione. E’ avvenuto in varie occasioni, ad esempio al tempo della ‘epica battaglia’ a proposito del trattamento da riservare alla recalcitrante Grecia nella primavera dello scorso anno. Un contenzioso che avrebbe potuto schiantare una Ue divisa tra i difensori irremovibili della riduzione del debito e dell’austerity e coloro che, difendendo Atene, difendevano in realtà la possibilità per i propri stati nazionali di poter sforare parametri troppo stretti anche per le proprie rispettive economie e vantaggiosi esclusivamente per Berlino. Com’è andata a finire è noto: il governo ‘anti-austerity’ di Atene ha piegato la testa quasi senza combattere, accettando una dose da cavallo di tagli che neanche gli esecutivi guidati da socialisti e conservatori si erano mai permessi di sottoscrivere; ciò mentre l’asse ‘flessibilista’ guidato da Italia e Francia tirava i remi in barca accettando i cosiddetti diktat tedeschi, che a ben vedere esprimevano in realtà il punto di vista della stragrande maggioranza dei componenti della Commissione Europea e dell’Eurogruppo, a dimostrazione che esiste ormai una classe dirigente continentale che prescinde sempre più dalle esigenze particolari degli spezzoni nazionali di borghesia. La divisione tra rigoristi e flessibilisti all’interno dell’Ue si è all’epoca conclusa con la netta vittoria dei primi, che ne hanno approfittato per rilanciare e accelerare i processi d’integrazione del polo imperialista europeo a livello finanziario ed economico, ad esempio lanciando il progetto di un Fondo Monetario europeo svincolato da quello internazionale (attualmente guidato da Bruxelles in coabitazione con Washington), oppure allargando la Troika al cosiddetto ‘Fondo Salva Stati’, cioè all’Esm, il Meccanismo Europeo di Stabilità. Un deciso passo in avanti nella creazione di un ulteriore livello di governance alla quale ha fatto seguito, nel corso dell’autunno, l’accelerazione sulla unione bancaria e sulla una unione fiscale di livello continentale. 
Su un altro fronte, gli attacchi di Parigi hanno fornito all’establishment dell’Unione Europea l’occasione per rilanciare e accelerare i progetti di rafforzamento del complesso militare-industriale europeo, già implementato negli ultimi anni. Inoltre, mentre si va verso la creazione di un’agenzia di intelligence continentale, la Germania ed altri paesi – come il Belgio o l’Olanda – hanno enfaticamente annunciato la loro scesa in campo sul piano militare diretto, mobilitando navi da guerra, caccia e migliaia di soldati da destinare alle missioni già in atto in Medio Oriente ed in Africa o a quella che si annuncia per ‘stabilizzare’ la Libia. Anche in questo caso di tratta di un passo storico in virtù del quale Berlino ed altri membri del nucleo centrale dell’Ue scendono direttamente in campo affiancandosi al tradizionale protagonismo bellicista francese.
Nonostante queste novità non certo irrilevanti l’attenzione è ora tutta puntata sul conflitto in atto tra i diversi membri dell’Ue a proposito del controllo delle frontiere e della gestione dei flussi migratori. Un conflitto che, si afferma, potrebbe condurre ad un rapido e disastroso tracollo non solo di Schengen – cioè della libera circolazione degli individui all’interno dello spazio europeo – ma della stessa Unione. Che sia in atto un aspro conflitto sul controllo delle frontiere è innegabile: d’altronde se è vero che gli ambienti capitalistici europei e la burocrazia continentale che ne rappresenta e cura gli interessi sanno bene che senza una massiccia iniezione di manodopera importata difficilmente l’Ue potrà sostenere le esigenze dei settori produttivi in sofferenza in un contesto di competizione internazionale sempre più feroce, è anche vero che ogni paese, ogni spezzone nazionale della borghesia continentale pretende di poter aprire o chiudere il rubinetto dei flussi migratori sulla base dei propri specifici interessi, ritmi, esigenze. 
A leggere la tendenza sembra che all’interno dell’establishment europeo l’impasse possa essere superato, anche questa volta, spostando in avanti l’asticella dell’integrazione: la costituzione di una Polizia di Frontiera e di una Guardia Costiera europee sottrarrebbe ai singoli stati almeno una parte della sovranità attualmente detenuta in merito al controllo delle proprie frontiere. In virtù del nuovo innegabile livello di centralizzazione, i vari paesi dovrebbero cominciare ad operare “in coordinamento” con una agenzia continentale espressione dei livelli di governance continentali sempre più strutturati. 
“Scampato pericolo” per l’Unione Europea, quindi? Non è il caso di azzardare previsioni e di giocare a fare i veggenti. I pericoli di una implosione del progetto imperialista europeo esistono e sono consistenti. All’interno del processo di integrazione europea non mancano le contraddizioni, gli elementi di conflitto, le divergenze ideologiche e materiali, gli egoismi nazionali, e le polemiche e le contrattazioni assumono anche toni molto duri, rischiando ogni volta di andare oltre il punto di equilibrio esistente e di mandare in pezzi così una architettura politica, economica, istituzionale e militare molto complessa e non ancora sufficientemente solida da poter essere considerata irreversibile. 
L’oggetto nel contendere, ad esempio, nella duratura polemica tra governo Renzi e Bruxelles non è di poco conto. Roma chiede all’Ue di riconoscere all’Italia un certo margine di flessibilità, ad esempio permettendo che i 220 milioni di euro stanziati dall’Italia a favore della Turchia affinché ‘regoli e controlli i flussi migratori’ (parte di quei 3 miliardi complessivi messi complessivamente a disposizione dall’Ue) siano scorporati dalla Legge di Stabilità e quindi non vengano contabilizzati come uno sforamento del rapporto deficit/Pil, quel vero e proprio dogma del 3% che da anni permette a Berlino e alle istituzioni comunitarie di tiranneggiare una quantità crescente di membri dell’Ue. Non solo: in realtà il premier italiano vuole dalla Commissione Europea lo sconto di tutto lo stanziamento del settore immigrazione/sicurezza/cultura – circa 3.3 miliardi di euro – inserito nella Legge di Stabilità che è attualmente all’esame dei censori europei.
Se Renzi la spuntasse potrebbe considerarlo un primo passo verso l’ottenimento di un più ampio margine, proprio mentre Bruxelles rimprovera all’Italia uno scarso rispetto dei parametri di rigore e potrebbe imporre a Renzi una manovra correttiva che danneggerebbe di fronte all’elettorato l’immagine di un premier già in crisi di popolarità.
Ma, a parte le questioni specifiche – oltre a quella citata vi è la vicenda del Nord Stream, quella delle sanzioni alla Russia, quella del “bail in” ed altre ancora – la vera posta in gioco nella continua polemica tra Roma e Bruxelles è l’ottenimento di un ruolo più forte dell’Italia all’interno del nucleo duro dell’Unione Europea attualmente egemonizzato dalla Germania e teoricamente dalla Francia.
In realtà anche il rapporto tra Berlino e Parigi non è proprio idilliaco, tanto che sulla stampa d’oltralpe si è parlato negli ultimi mesi di “divorzio tra Francia e Germania”. Tra i due paesi la divergenza in materia di conti pubblici e di lavoro non è mai stata così forte: mentre Berlino vanta la ‘piena occupazione’, un deficit sotto controllo e un Pil in crescita la Francia, per stessa ammissione del presidente Hollande che ha varato un “piano di emergenza economico e sociale” (in realtà un Jobs Act in versione transalpina), è investita da una delle più gravi crisi economiche degli ultimi decenni. Crisi alla quale Parigi chiede di poter rispondere allargando i cordoni della borsa e sforando per l’ennesima volta gli angusti vincoli di bilancio, misure alle quali però la Germania si oppone chiedendo anzi maggiori tagli alla spesa pubblica e più privatizzazioni e rimproverando alla Francia di essere in procinto di disattendere per l’ottavo anno consecutivo, nel 2017, il “dogma” del 3%. Tutto ciò mentre in Gran Bretagna il governo di destra si appresta a far votare i suoi cittadini in un referendum nel quale, esplicitamente, si chiederà ‘si’ o ‘no’ alla permanenza di Londra nell’Ue.
Insomma, mentre nella fascia esterna dell’Ue si moltiplicano le critiche e le rimostranze e crescono i desideri di autonomia rispetto ai diktat di Berlino – anche sulla spinta di un’ondata migratoria eccezionale che dà fiato alle istanze xenofobe e reazionarie – anche nei “quartieri alti” dell’Unione Europea non mancano i motivi di frizione, i dissidi, gli scontri su questioni dirimenti.
Ma non è detto che la crisi attuale dell’Unione Europea porti ad una sua implosione, anzi. La storia degli ultimi anni, come già detto, sembrerebbe dimostrare esattamente il contrario. 
Anche in questo caso la Germania e l’establishment continentale – che nel corso degli ultimi anni si è consolidato ed esteso – potrebbero reagire facendo un passo indietro per poterne fare due in avanti. Da più parti ormai si parla di una Unione Europea “a più velocità”, di un ritorno alla consolidata pratica delle cosiddette ‘cooperazioni rafforzate’ che hanno permesso negli anni scorsi ad alcuni paesi di varare un grado superiore di integrazione e centralizzazione in varie materie che poi è stato rapidamente esteso anche al resto dei partner del progetto continentale. Per evitare di stressare troppo una periferia esterna già ampiamente bastonata dalla crisi economica e dal rigorismo tedesco, l’Ue potrebbe puntare su una ‘Europa a geometrie variabili’ formata da cerchi concentrici con diversi livelli di integrazione: un nucleo compatto attorno a Berlino, poi l’Eurozona e poi ancora l’alleanza tra i 28 membri attuali in vista di un probabile imminente allargamento.
Un simile assetto permetterebbe alla Germania di mantenere una sostanziale preminenza sul progetto di integrazione continentale facendola procedere sulla base dei propri interessi; al tempo stesso i settori più voraci della borghesia tedesca – che prendono di mira tanto Angela Merkel quanto gli “sfaccendati” italiani o francesi – dovrebbero però rinunciare a pretendere di controllare le istituzioni europee al 100% come avvenuto spesso finora. La sfida che impegna da tempo la Germania, è evidente, è riuscire a mantenere il suo ruolo politicamente ed economicamente dominante senza però tirare troppo la corda e rompere il giocattolo. Se vorrà consolidare il suo ruolo, Berlino non potrà fare a meno di estendere e consolidare l’integrazione continentale dal punto di vista economico, fiscale, giuridico, legislativo, ideologico, militare, strappando ampie cessioni di sovranità ai propri partner ma cedendo contemporaneamente quote di sovranità in nome di un obbligato rafforzamento delle istituzioni comuni.
Un processo affatto lineare e indolore, è evidente. In ballo c’è il futuro assetto del nucleo duro europeo insieme ed attorno alla Germania e ai suoi satelliti all’interno dell’Ue. Obiettivo di Renzi e di Hollande, sostanzialmente, è ottenere il massimo di ruolo all’interno di una cabina di regia in via di ridefinizione all’interno della quale Italia e Francia vogliono partecipare a pieno titolo e non alla stregua di comprimari. Il vero obiettivo di Renzi sembra quello di modificare i rapporti di forza tra Italia e Commissione e, allo stesso tempo, imporre l’Italia come “terza gamba” della leadership europea.
A ricomporre coercitivamente possibili prospettive divergenti tra i “fratelli coltelli” europei, evidentemente, vi è la prospettiva di sfasciare l’Unione Europea. Il che per i settori dominanti a livello continentale e dei singoli stati forti vorrebbe dire tornare ad affrontare in solitaria – e in posizione di evidente svantaggio – una competizione economica e geopolitica internazionale sempre più agguerrita e selvaggia. E i concorrenti per i singoli stati europei, nella maggior parte dei casi, sarebbero giganti del calibro della Cina, dell’India o degli Stati Uniti, oppure poli multinazionali sempre più integrati e in via di rafforzamento su tutta la geografia terrestre. Una prospettiva che costituisce, è evidente, un elemento di controtendenza forte rispetto alle spinte centrifughe che ciclicamente scuotono l’impianto dell’Unione Europea. 

Rete dei Comunisti

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