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Ma perché devono fare il referendum nel Regno Unito?

L’accordo siglato tra Cameron e Bruxelles che verrà sottoposto a referendum nel Regno Unito il 23 giugno di quest’anno è un accordo per certi versi infame in quanto, come sempre, in caso di difficoltà si fanno volare gli “stracci”; il prezzo questa volta lo pagheranno gli immigrati comunitari i quali non potranno più usufruire del welfare inglese almeno per sette anni e verranno assistiti alle condizioni dei loro paesi di origine.

Va comunque ricordato in questo caso che anche gli emigrati italiani subiranno lo stesso trattamento e va fatto non solo per rimarcare le discriminazioni ma per evidenziare che in Italia il fenomeno dell’emigrazione è ripreso da tempo vedendo oltre quattro milioni di lavoratori e giovani andare in altri paesi, fenomeno questo sistematicamente rimosso dalla stampa e dall’azione della politica.
Un accordo che ribadisce che in Europa la “spartizione” viene fatta come sempre tra potenti i quali stabiliscono le condizioni per l’intero continente e fa emergere con evidenza la differenza di trattamento verso paesi quali la Grecia ed i cosiddetti PIGS, vedi le lamentele di Renzi che rischia di fare la fine di Berlusconi, ai quali vengono riservati diktat e lettere di “ammonimento” piuttosto che confronto e mediazione. D’altra parte questa è la natura imperialista della UE ed il danno politico che si evidenzia da questo tipo di situazioni è che l’idea sbandierata dell’Europa dei diritti e dei popoli non è nient’altro che una operazione di facciata ideologica sempre più debole e scoperta.
L’accordo rappresenta non la causa ma gli effetti di processi più profondi e non molto palesi da analizzare bene per capire le future evoluzioni della UE. La scelta di fare il referendum è una scelta pesante che potrebbe far saltare i calcoli di chi ha sottoscritto l’accordo nel consiglio europeo. Infatti se nella UE grandi contraddizioni non si manifestano, se non i malumori dei paesi dell’est Europa che hanno emigranti nel Regno Unito, in Inghilterra c’è una spaccatura evidente che parte dal mondo degli affari e delle imprese britanniche.
E’ stata firmata una lettera da parte di 36 imprenditori inglesi del Ftse 100 (un indice azionario delle 100 società più capitalizzate quotate al London Stock Exchange) a sostegno dell’accordo firmato, preoccupati per il possibile avvio di una fase di instabilità economica e finanziaria che si potrebbe determinare con la Brexit come conseguenza della vittoria del NO al referendum di Giugno. In questi decenni di integrazione i legami tra le imprese britanniche ed il mercato unico europeo si sono rafforzati grazie alla libertà di circolazione di merci e capitali ed uno stop a questa libertà peserebbe sull’attività di tali imprese. Ma va detto che le rimanenti imprese dell’indice Ftse 100 non hanno firmato la lettera, rivelando una spaccatura tra le maggiori aziende che in gran parte, comunque, non hanno preso posizione. Ma esiste una spaccatura che pesa politicamente anche nel resto del mondo economico del paese, con le medie e piccole imprese.
Infatti la rottura politica maggiore riguarda proprio il partito conservatore di Cameron il quale vede il sindaco di Londra, Boris Johnson, ed altri cento parlamentari Tory contrari all’accordo. Anche alcuni parlamentari laburisti sono contrari, come contrari sono le sinistre politiche e sindacali ed i movimenti populisti come l’Ukip di Farange. Insomma l’accordo ha spaccato la società inglese mettendo la grande borghesia imprenditoriale e finanziaria in contrapposizione politica ed ideologica ad altri settori di borghesia nazionale e settori popolari variamente collocati sul piano politico.
D’altra parte non si può non ricordare che lo stesso Cameron ha assunto negli anni scorsi posizioni fortemente euroscettiche e dunque questo accordo in realtà è l’espressione di una contraddizione che il Regno Unito si trascina da tempo in relazione al progetto europeo scegliendo di non entrare nell’Eurozona e di mantenere una forte indipendenza statuale rispetto agli altri paesi principali che hanno dato vita alla UE. 
Quali sono i motivi di questa contraddittorietà inglese? Certamente contano le caratteristiche finanziarie del paese che da sempre è un’importante piazza finanziaria, per certi versi autosufficiente, e che il Regno Unito ha sempre fatto parte della “placca” geopolitica nordatlantica assieme agli USA. La crescita economica e politica dell’UE, nonostante le sue difficoltà, evidentemente ha prodotto una diversificazione degli interessi in quel paese producendo una spaccatura non di poco conto.
Si conferma cosi che il nocciolo duro dell’UE, il potere economico della Germania più quello militare e atomico della Francia, è in grado di sviluppare una forza centripeta che modifica gli equilibri precedenti; non solo, ma è anche possibile che si renda necessaria un’accelerazione del processo federativo del nocciolo duro che dia più potere al polo imperialista europeo nella competizione globale, come Il Sole 24 Ore predica quotidianamente dalle sue pagine. Competizione globale tra imperialismi (che qualcuno continua a mettere in dubbio) confermata ad esempio dalle vicende spionistiche degli USA verso l’UE, che dimostrano che le “buone” relazioni tra i due soggetti non sono affatto scontate.
In questo caso però l’incoerenza di Cameron ha bisogno anche di un’altra spiegazione che ha un carattere più politico che strategico. La necessità di ricontrattare i termini del rapporto tra il Regno Unito e la UE, da parte sua, e le caratteristiche economiche e sociali di chi si oppone all’unione continentale, nascono e si accentuano dall’inizio della crisi economica che dal 2008 ha coinvolto tutti i paesi imperialisti. Crisi che sta producendo una opposizione diffusa dei settori popolari e nazionali, magari in forme politiche reazionarie, ma che stanno rimettendo in discussione l’equilibrio che le borghesie imperialiste voglio imporre. Non è un caso che tutti i referendum fatti in Europa sulla UE, dalla Danimarca alla Francia, sono stati sempre persi dalle frazioni filo europee delle diverse borghesie nazionali e non è un caso che nel nostro paese l’ipotesi del referendum sia totalmente rifiutata da tutti i partiti, escluso il M5S. 
Questo significa che le classi (o le caste) politiche devono fare i conti con una opposizione sociale che non si esprime per adesso in modo politicamente attivo ma che mina le basi degli assetti politici esistenti producendo instabilità politica e dunque crisi di egemonia del progetto di costruzione del polo imperialista continentale. Il referendum e la mediazione raggiunta a Bruxelles hanno perciò l’obiettivo di rendere gestibile una fase estremamente precaria; ma non è detto che l’esito sia diverso da quello greco, poi piegato comunque alle esigenze dei poteri finanziari continentali, oppure che determini una instabilità più pericolosa dell’equilibrio attuale nelle relazioni UE/Regno Unito.
Comunque questa è una condizione estremamente contraddittoria della borghesia europea che va utilizzata dalle forze di classe ai fini della lotta contro il polo imperialista in quanto lo espone al pronunciamento democratico dei popoli; dunque se il referendum si convoca in Gran Bretagna perché non dovrebbe essere possibile organizzarlo anche in Italia? Inoltre rende concreta e credibile l’ipotesi della rottura della Unione Europea che come Rete dei Comunisti da tempo proponiamo e che, con la nascita di Eurostop lo scorso 21 novembre, è divenuta oggetto di battaglia politica per un fronte di forze più ampio.

* Rete dei Comunisti

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