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Loi Travail. Requiem per la democrazia liberale

Trascorsi quasi due mesi dalla ufficiale presentazione del disegno di legge volto a riformare il codice del lavoro francese, il testo è divenuto legge saltando il passaggio parlamentare. Il governo, trovatosi nell’impossibilità di far approvare la legge dal parlamento a causa delle numerose defezioni all’interno di una maggioranza già fragile, ha infatti fatto ricorso all’articolo 49-3 della costituzione, che permette di approvare il testo bypassando il voto in aula.

Nonostante le imponenti manifestazioni realizzate in tutto il paese nel corso degli ultimi mesi, nonostante i sondaggi affermino che la maggioranza dei francesi è contraria a questa legge, nonostante molti parlamentari della maggioranza stessa si siano espressi in maniera negativa sulla “riforma”, il governo ha proceduto facendo ricorso ad uno degli strumenti più contestati dell’arsenale normativo, la cui particolarità risiede proprio nello stravolgimento della normale attribuzione (e separazione) dei poteri, consentendo all’esecutivo di sostituirsi pressoché in toto al potere legislativo.

La decisione si inserisce in un contesto di fragilità della democrazia francese senza precedenti: dopo la dichiarazione dello stato d’urgenza (in seguito agli attentati del 13 novembre) il presidente della repubblica ed il governo francesi hanno gestito il potere secondo una logica emergenziale, rappresentando un cambio di passo in senso decisamente autoritario della gestione della cosa pubblica.

Ciò che qui interessa non è tanto il contenuto della legge (di cui si è già ampiamente parlato) né il vastissimo movimento di opposizione che si è formato contro la “loi travail et son monde”, quanto, piuttosto, un’analisi della modifica della gestione del potere sia rispetto alle opposizioni sociali, sia rispetto alle difficoltà generate dalla fragilità della maggioranza.

L’atteggiamento di totale chiusura e la repressione selvaggia di piazze stracolme hanno reso chiaro che l’esecutivo pensa più in termini rappresentativi/concertativi (che prevedono una fase di mediazione) il rapporto con una opposizione sociale che passi all’azione ed osi finalmente criticare il quadro di riferimento. Alla totale sordità rispetto alle rivendicazioni è corrisposta infatti un tentativo manifesto (per ora non riuscito) di stroncare con la violenza ogni opposizione, facendo leva sul meccanismo della paura. Da questo punto di vista, è emblematico il fatto che i manifestanti siano ormai caricati e bersagliati con quantità spropositate di lacrimogeni e granate stordenti anche nei momenti in cui le manifestazioni sono relativamente tranquille. Il dispositivo repressivo messo in campo rende anche visivamente l’idea che si sta realizzando non tanto il mantenimento dell’“ordine pubblico”, ma che è in corso un vero e proprio conflitto volto all’annientamento di ciò che potrebbe in futuro trasformarsi in una minaccia per il potere costituito; tale approccio guerresco è ulteriormente sottolineato dal lessico militaresco utilizzato dagli esponenti del governo, lessico che ha molto a che spartire con quello dei leader autoritari.

Il secondo elemento rilevante concerne il completo sovvertimento delle procedure della democrazia borghese. Nel momento in cui le logiche del capitale globalizzato e la competizione regionale (infra UE) impongono di realizzare determinate trasformazioni del sistema produttivo e, di conseguenza, del mondo del lavoro, non vi è più alcuno spazio per i possibili fallimenti legati ad un meccanismo parlamentare che non funziona nella maniera dovuta. Si stravolgono quindi le regole prestabilite, rendendo chiaro che nei (rari) casi in cui il dispositivo procedurale, ammantato di un’aura di rappresentatività del volere dei cittadini, non serva alla conservazione ed implementazione dello stato di cose presente, esso può tranquillamente essere sorpassato. Utilizzando un linguaggio militaresco, da “uomo solo al comando”, si impone una trasformazione radicale di norme che sono state conquistate in decenni di lotte di classe estremamente determinate.

Tale approvazione certifica (ancora una volta) in maniera estremamente chiara che l’universo della democrazia rappresentativa, e quindi della mediazione tra interessi contrapposti di cui si facevano portatori i partiti, è finito. Ed è finito, ovviamente, non a causa del conflitto sociale, ma a causa delle necessità dello sviluppo capitalistico occidentale nella fase attuale; utilizzando un’espressione di Gallino, potremmo considerare tale trasformazione come una delle vittorie della lotta di classe dall’alto. La competizione globale impone infatti il superamento di un sistema che, se un tempo era funzionale alla conservazione dell’assetto dei rapporti di produzione, ora invece non è più né funzionale, né necessario. Trenta anni di reazione neoliberale hanno reso possibile il superamento della democrazia liberale e preparato il terreno per una governance autoritaria funzionale alle nuove esigenze del capitale.

Occorre sottolineare che questa “fine di un mondo” cambia non solamente le modalità di gestione del potere, delle sue pratiche disciplinari e delle modalità relazionali con la classe subalterna, ma costringe anche coloro che si vorrebbero fare portatori di un’altra visione della società, e dunque del conflitto, di modificare il proprio approccio al reale ed al conflitto con la controparte. Come hanno capito in Francia gli attori del movimento attuale, da un potere che non ha più alcuna intenzione di concertare, non vi è più nulla da chiedere né rivendicare.

Gherardo Leone

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