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ItalExit. L’intervento di Dino Greco

Per mettere sui piedi ciò che cammina sulla testa e promuovere una discussione seria sul “cosa fare” al fine di combattere efficacemente l’iperliberismo europeo e le politiche di austerity, occorre che ci intendiamo su cosa è l’Europa, questa Europa.

Non come vorremmo che fosse in base ad un ideal-tipo. Ma cos’è la concreta costruzione europea, vale a dire la formazione economico-sociale capitalistica nella sua forma attuale.

Partiamo dal cuore del problema.

Per rispondere all’acutizzarsi della sua crisi, cioè della sempre meno contrastabile caduta del saggio di profitto, il capitale e il suo personale politico hanno prodotto una complessiva ristrutturazione del sistema che coinvolge:

la struttura economica (cioè un modello di accumulazione per espropriazione, un capitalismo usurario ormai impegnato a sopravvivere mediante la distruzione delle forze produttive);

l’architettura monetaristica, nel combinato trattati-moneta unica, che di quell’impianto costituisce la spina dorsale e l’apparato strumentale;

la sovrastruttura politica e giuridica, attraverso l’esproprio della sovranità nazionale in favore del board finanziario continentale, il cambiamento della forma di governo, in qualche caso dei modelli elettorali, attraverso la concentrazione del potere negli esecutivi e la riduzione dei parlamenti ad una funzione ornamentale: siamo cioè di fronte al sostanziale, definitivo ripudio della democrazia politica da parte del capitalismo;

i rapporti sociali, con la distruzione del welfare, l’annichilimento delle organizzazioni di classe, la repressione di tutte le manifestazioni di conflitto e di dissenso;

l’ideologia, che spacciando per legge naturale l’ordine di cose esistente tiene insieme tutto l’impasto e persuade che “non c’è alternativa”.

Ecco perché (bisogna metterselo in testa) tutte le tesi variamente camuffate sulla riformabilità dell’Ue descrivono le illusioni, i limiti e, al dunque, la desolante inadeguatezza di un pensiero che ci consegna alla sconfitta.

Tali sono le illusioni, ad esempio, che hanno travolto Tsipras, la convinzione di potere contrattare con la Troika la fine dell’austerity e l’abbuono del debito.

Per semplificare: la credenza di potere concordare con gli strozzini la fine dell’usura in ragione del manifesto fallimento delle ricette liberiste, trascurando però l’essenziale e cioè che la missione dell’Ue, dell’oligarchia finanziaria europea, non è negoziabile e che all’interno dei vincoli imposti dai trattati il gioco è truccato e la resa inevitabile.

In seguito a quel fallimento, in questi mesi si è cominciato a parlare, sia pure confusamente, di un “piano B”.

E’ un bene che si faccia strada la convinzione che quello imboccato in Grecia è un vicolo cieco e si cerchino nuove strade.

Tuttavia, credo che la questione del “piano B” sia mal posta.

Se pensiamo ad un “piano B” vuol dire che lo si ritiene un’ipotesi subordinata rispetto ad una principale; ma abbiamo già detto che la riformabilità dell’Ue, vale a dire il rovesciamento consensuale, per comune resipiscenza, dei rapporti sociali di cui è l’incarnazione, non è possibile.

Dobbiamo allora convincerci che c’è una sola vera soggettività politica alternativa da costruire: un “piano A” da contrapporre al modello esistente.

Altrimenti è come vivere in attesa che l’Ue imploda per autocombustione, che siano i nostri avversari, le classi dominanti a redigerne il certificato di morte e a tracciare, da destra, la traiettoria d’uscita.

Ma così confessiamo solo la nostra subalternità.

Né si può rinviare il problema a quando fra tutti i popoli dell’Europa dei 25 sia maturata la volontà di togliersi il cappio dal collo, perché intanto l’austerity continua a produrre i suoi danni, nelle condizioni materiali come nella testa delle persone.

Bene allora tessere legami sovranazionali, costruire fra i popoli e fra i lavoratori obiettivi di lotta comuni, coordinare momenti di mobilitazione continentale, riscoprire la tensione internazionalista che è un patrimonio e una conquista irrinunciabile della migliore storia del movimento operaio.

Ma bisogna sapere che ogni lotta o si incarna nella dimensione nazionale o non è e si risolve nella pura propaganda, mentre oggi si pone a noi, con assoluta urgenza, la necessità di praticare l’obiettivo e di lavorare, in ogni paese, per rotture unilaterali.

Battersi per la riconquista della sovranità nazionale espropriata deve diventare un obiettivo della sinistra, non una parola d’ordine da abbandonare alla destra e al nazionalismo razzista.

Dobbiamo perciò venire in chiaro anche su un altro punto di analisi che continua ad essere fonte di divisione a sinistra.

Da decenni (non da ieri) il capitale, nella sua massima espressione ha perfettamente compreso che il proprio terreno politico ed economico di elezione, la condizione della propria sopravvivenza ed egemonia è la dimensione mondo.

Friedrich von Hayek e in seguito gli epigoni di Milton Friedman, la scuola di Chicago presa a paradigma da Margareth Tatcher e Ronald Reagan, hanno tracciato limpidamente le coordinate di quella rotta.

Per dirla con le parole di David Rockefeller (il fondatore della Trilateral), “la sovranità sovranazionale di un’elite intellettuale e di banchieri mondiali è sicuramente preferibile all’autodeterminazione nazionale dei secoli scorsi”.

Da ultimo, è stata la banca J.P. Morgan, in un ormai notissimo documento del 28 maggio 2013, a spiegare l’ubi consistam della modernità capitalista:

“I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”.

E più precisamente ancora:

“I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quella esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”.

Non era possibile dire più chiaramente di così.

In perfetta coerenza con questa limpida indicazione strategica, nel nostro paese, il governo in carica sta procedendo alla definitiva demolizione della Costituzione del ’48, di cui il trattato istitutivo dell’Unione rappresenta dal punto di vista sociale, giuridico, politico, culturale l’esatto opposto.

La liquidazione della Costituzione italiana, della sovranità popolare in essa inscritta, dei suoi principi, delle sue indicazioni prescrittive è essenziale per la realizzazione compiuta della “lex mercatoria”, per la costituzionalizzazione del mercato.

Ora, dobbiamo liberarci dalla paura che dietro l’istanza di una radicale e definitiva critica a questa nuova forma del dominio del capitale si affermi la cancrena del nazionalismo xenofobo, isolazionista e guerrafondaio, perché proprio in questa Europa esso trova il proprio brodo di coltura.

E’ in questo quadro miserabile che vengono innalzati ovunque i muri, che si alimenta la crociata razzista, che si concepisce l’ignobile deportazione di massa dei migranti che vive nel patto fra Europa e Turchia; o che la competizione fra lavoratori di diversi paesi si accentua proprio in forza dei trattati che autorizzano il dumping di manodopera.

In questo quadro si colloca la vexata quaestio dell’euro che tanto divide (e nei fatti paralizza) la sinistra antagonistica, in Italia e in Europa.

Ora, dire che l’euro – la moneta – sia la causa di tutte le disgrazie e che tolto di mezzo quel peccato originale si sia risolto tutto è un’evidente sciocchezza: capitalismo e politiche liberiste possono tranquillamente esistere con o senza euro.

Ma bisogna anche e finalmente capire che trattati e moneta rappresentano un compatto indivisibile, che l’euro è, per così dire, l’”instrumentum regni”, il catenaccio che lega le sbarre della gabbia di ferro, che impone le politiche di austerity, che legittima il dominio del capitale sul lavoro, che sospinge verso l’estrazione di plusvalore assoluto da un lavoro ridotto in condizioni schiavili, che annienta il welfare e privatizza tutto ciò che può assumere i caratteri della merce, che istituzionalizza il dominio degli stati forti su quelli deboli, dei creditori sui debitori. E nel cui guscio si assiste, da dieci anni, al miracolo dei ricchi salvati dai poveri.

L’avere convinto che la moneta è un elemento neutrale dell’assetto capitalistico europeo è il capolavoro, il più clamoroso successo ideologico dei poteri dominanti.

Uscire dall’euro non significa dunque escogitare soluzioni taumaturgiche, ma togliere di mano al nuovo potere autocratico, privo di qualsiasi legittimazione democratica, la clava chiodata, schiudere la possibilità – e la fiducia nella possibilità – di cambiare le cose, di aprire uno spazio d’azione.

Questo nodo non può essere eluso, deve essere sciolto. E rapidamente.

Il prossimo 26 giugno la prima grande occasione si presenterà ai compagni e alle compagne spagnoli impegnati nella consultazione elettorale più importante dopo la caduta del franchismo. Se essi, forti di una ricostruita unità a sinistra, ce la faranno, come è nelle speranze di tutti noi, la questione del rapporto con l’Ue si riproporrà, esattamente nei termini in cui si è presentata a Syriza. Ma questa volta non può – non deve! – finire come in Grecia.

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