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Astensionismo elettorale: tra protesta e abulia politica

C’è chi lo considera la protesta tacita di una maggioranza che non si sente rappresentata, chi invece scaglia il proprio giudizio implacabile, ripercorrendo la parabola dantesca dei gironi dell’ignavia. C’è anche chi, più semplicemente, rivendica il proprio diritto al disinteresse più totale e -perché no- ad un posto al sole in riva al mare, specie quando le urne sono aperte in un bel giorno di primavera, che più che primavera sembra invece proprio estate.

E’ una questione spigolosa, che la polemica attuale non si preoccupa di smussare, anzi. Mentre la minoranza attiva dei votanti si sdegna e incalza i disertori, una consistente fetta di quell’èlite di intellettuali contesi tra stampa mercenaria e manierati salotti tv si appella al modello USA, dove il voto è talmente demodè che il suo non-esercizio non fa nemmeno più notizia.

Piaccia o no, ma soprattutto a seguito dei dati emersi dalle ultime amministrative italiane, il problema astensionismo va affrontato, fosse anche solo per l’amor più onesto di cronaca o anche per gli sforzi (e i compensi agli endorser) dei partiti in gioco.

La matematica non è mai stata un opinione e i numeri sono adamantini, chiari più che mai.

Alle ore 19 di domenica scorsa, l’affluenza più bassa alle urne si registrava a Napoli con il 37,99% dei votanti, seguita a ruota da Roma con un parco 39,39%: un dato senz’altro significativo, considerata anche la decisione di non estendere il voto al giorno successivo.

Difatti, alla chiusura dei seggi alle ore 23, i numeri non si sono poi discostati di tanto dai primi risultati, superando di poco la soglia del 50%: più nel dettaglio, l’affluenza registrata è stata a Milano del 54,66%, seguita da Trieste e Torino con il 53,45% e il 57,19% rispettivamente, mentre a Bologna la percentuale degli aventi diritto presentatisi effettivamente alle urne è stata del 59,72%. Sempre secondo i dati Ansa, alla chiusura dei seggi l’affluenza per Napoli e Roma è stata del 54,14% e del 57,19%, mentre solo Cagliari è arrivata a sfiorare la soglia del 60,19%.

Se già con le precedenti omologhe era emerso un notevole calo dell’affluenza alle urne, c’è da dire che l’astensionismo non è né un caso isolato, né una peculiarità contingente del panorama socio-politico italiano.

De facto, volendo ignorare lo specchio statunitense dell’astensione ormai diffusissima, è il suo riflesso perfettamente simmetrico sull’Europa a riaprire il dibattito sull’efficienza delle democrazie liberali.

Per quanto coloro che non vanno a votare vogliano far passare il diritto alla non-scelta come atto di protesta, non c’è dato di fatto più vicino alla realtà della non-scelta perfettamente funzionale alla matrice comune di tutti i neoliberismi occidentali.

Se uno scrittore come il Premio Nobel Josè Saramago aveva già individuato, più che nell’astenersi, nel votare “scheda bianca” il vero seme di una protesta destinata a germogliare (“Saggio sulla Lucidità”, ndr.), c’è chi destina la stessa a sfiorire nel momento in cui gli “inattivi” preferiscono il giardinaggio domenicale (per buona pace dei sostenitori delle tesi zapatiste) all’espressione di una preferenza forse più utile, quantomeno, a scavalcare le staccionate sicure delle villette a schiera e di un’indolenza maldestramente mascherata da disillusione e solo apparentemente indice di una diffusa sfiducia nel sistema democratico.

Per non farsi mancare proprio nulla, ci sono persino quegli strenui sostenitori della filosofia dell’astensione che cadono, tuttavia, in un vizio di forma nel momento in cui ritirano in ballo l’obbligo al voto, imposto dal ventennio fascista o, in tempi più recenti, dalla Repubblica Popolare Cinese, contrapposto alla libertà di non intravedere necessariamente nel voto quella conditio sine qua non l’elettore possa esercitare la propria partecipazione attiva alla cosa pubblica.

Astensionismo come nuovo must dei tempi moderni?

Che l’apatia politica sia il segno distintivo di un Occidente “passivizzato”, in cui manca –di proposito?- un’ideologia collettiva forte, capace di trascinare e coinvolgere le masse popolari, non è una novità. Sembrano talmente lontani quei tempi in cui, a partire dagli anni Sessanta, un nuovo fermento e la voglia di cambiare l’assetto capitalistico della società resero protagonisti delle lotte sociali sindacalisti, studenti e operai che le immagini sembrano scorrere troppo lentamente, in quel bianco e nero antiquato, autre temps, tipico del documentario trasmesso in seconda serata che non interessa più a nessuno.

Un attivismo talmente sentito e partecipato all’interesse condiviso del superamento del capitalismo stesso che, oltre a percentuali esorbitanti di partecipazione alla vita politica (comprese solitamente tra l’80 e il 90%), non mancò di allarmare le enclaves liberiste, costrette a correre ai ripari per contenere, almeno in parte, il classico scossone al corso della storia che rappresentò il Sessantotto per diverse generazioni successive.

Con la moderazione imposta ai partiti e il progressivo processo di livellamento delle coscienze ad opera dei mass-media, l’inversione di tendenza è stata lenta, ma inesorabile.

Probabilmente, ha ragione il linguista e intellettuale Noam Chomsky quando afferma che “in passato, prima degli anni ’60, ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla vita politica. Ciò è intrinsecamente antidemocratico, ma è stato uno dei fattori che hanno permesso alle democrazie di avere successo.”

Eppure, senza necessariamente avallare ad ogni costo complottismi e trame contorte, resta il problema reale dell’astensionismo come prodotto non tanto dell’insofferenza verso una politica non gradita, quanto dell’inconsapevolezza, di quell’ignoranza imposta (da un’educazione inadeguata improntata all’inerzia sociale, dai mezzi di informazione, dagli istituti formativi, dall’utilizzo improprio dei social e da tutti quei fattori che spostano l’attenzione altrove) che ostacola l’individuo nel sentirsi parte integrante ed attiva della democrazia in quanto, prima di tutto, parte attiva di una collettività.

Una collettività che non può sfaldarsi nel disinteresse e nell’abulia politica, ma che può e deve scegliere affinché le cose cambino davvero.

 

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1 Commento


  • marco

    suggerisco il rifiuto verbalizzato della scheda.
    quello che farò io.
    vi recate al seggio per espletare il vostro diritto/dovere di partecipare alle elezioni – art 48- IV° capoverso della costituzione).
    vi fate vidimare il certificato dal presidente.
    senza toccare le schede vi avvalete del diritto di rifiutarle in quanto a causa della vigente legge elettorale non potete esprimere liberamente il vostro voto perché costretti a scegliere tra due candidati da cui non vi sentite rappresentati minimamente (art 48 – VI° capoverso).
    fate verbalizzare il rifiuto come previsto dal d.p.r. 361/57.
    se volete allegate la dichiarazione riportata sopra inerente all’articolo 48 del dettato costituzionale, se no basta un semplice “nessuno dei due mi rappresenta”.
    questo voto non viene considerato né bianco né nullo, ma è detto non attribuibile.
    non può essere ripartito in nessun premio di maggioranza , né conteggiato per l’ammontare dei rimborsi elettorali in quanto questi vengono calcolati con un rapporto tra media votanti e schede nell’urna.
    voi alzate la media votanti , ma la vostra scheda non finisce nell’urna.
    quindi il mio non voto è già di suo un atto politico.
    in più è un non voto attivo.
    nel senso che vado al seggio, faccio compilare dei verbali, rilascio una dichiarazione e ci metto il nome e cognome.
    di sicuro non è disinteresse politico ma pratica rivoluzionaria, quella di usare le elezioni farsa di questa democrazia crepuscolare come una tribuna per acuire le contraddizioni in seno alla società.
    le istituzioni non sono un fine ma un mezzo come un altro.

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