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Il cataclisma verificatosi ai ballottaggi di domenica segna una svolta importante e invia un fortissimo segnale politico che si può riassumere in tre direzioni concomitanti e complementari: un crescente astensionismo, la vittoria del M5s e, soprattutto, la sconfitta del PD. La sfida dei prossimi mesi consisterà nel saper leggere e interpretare questo segnale e nel presentare proposte politiche all’altezza della situazione.

La propensione ad astenersi dal voto è ormai una costante degli ultimi anni che sembra crescere un po’ in tutta Italia, salvo sporadiche eccezioni, anche sotto gli auspici della classe dirigente del Paese (cfr. l’articolo del 5 giugno di Ilvo Diamanti su Repubblica). Instillare nell’opinione pubblica il principio del TINA (There is no alternative) è sostanzialmente connaturato alla natura stessa del neoliberismo, pertanto non c’è da stupirsi che l’establishment europeista difenda con le unghie e con i denti il diritto al non voto e interpreti come un’autentica minaccia ogni referendum. Nell’attuale sistema politico bisogna educare chi vota al “mercato dei leader”, indurre la percezione che, al netto della “libera scelta” di chi guiderà l’amministrazione o il governo, le regole e le politiche economiche sono già state decise e saranno sempre e solo le stesse, quelle del profitto e del mercato. Una democrazia reale che intenda derogare a tale principio per mezzo di politiche di redistribuzione o scelte eterodosse da sottoporre a referendum, è destinata a entrare in rotta di collisione con questo modello di “democrazia funzionale” compatibile  con le esigenze del capitale.

Quella in cui viviamo è una democrazia teleguidata a binario unico: scegli pure il leader che poi pensiamo noi a programmarlo. Il caso Tsipras, l’annacquamento di Podemos, le ombre sul referendum Brexit sono eventi che vanno tutti nella stessa direzione: il timone è saldamente nelle mani della Troika e dei mercati e anche se qualche leader populista può aspirare a mettere piede nella plancia di comando, sappia già, prima di entrare, che il pilota automatico è stato impostato. L’astensionismo si spiega anche così, con la rassegnata convinzione che tanto nulla può cambiare e che la lotta di classe dall’alto non potrà che continuare.

E l’Italia come si situa in questo contesto europeo di prevenzione, occultamento e repressione del conflitto?

La vittoria del M5s a Roma e a Torino ha un significato che travalica la dimensione amministrativa e assume una valenza generale di ordine politico – sociale. Il voto per i pentastellati si afferma nelle periferie, laddove l’abbandono, l’impoverimento e il decadimento della qualità della vita delle classi popolari e del ceto medio hanno colpito duramente. La controprova di ciò ce l’abbiamo con altri dati che ci dicono come, già al primo turno, i candidati del PD siano andati bene nei centri storici di Roma, Torino e Milano. Chi ha votato nelle periferie delle metropoli ha individuato, fin da subito, il proprio antagonista di classe nel partito di Renzi.

Assieme a istanze giustizialiste, a promesse di buongoverno e di lotta agli sprechi, tutti elementi di routine nelle campagne elettorali fin dall’epoca di tangentopoli, fanno capolino, nei programmi dei pentastellati, temi sociali come i patti per le periferie e il reddito di cittadinanza. Ce n’è forse abbastanza perché gran parte delle classi popolari vedano nel M5s, a torto o a ragione, un avversario dell’austerity e della dittatura del mercato imposta dai governi e dalle amministrazioni PD. Si tratta di un evento politico notevole e su vasta scala, una sorta di lotta di classe, ancora aurorale, piuttosto confusa e per procura, affidata a un movimento che si presenta come interclassista e ostile ai poteri forti. È poco ma è un inizio, in un Paese che sembra aver del tutto abbandonato ogni forma di vera conflittualità sociale e politica da decenni.

L’esperimento potrebbe rivelarsi di corto respiro, ma una rete e una collaborazione tra le metropoli guidate da chi inverte le priorità e mette al primo posto le classi popolari, come fa da anni De Magistris a Napoli, potrebbe costituire una forma di reale contropotere e contribuire a incrinare un grumo di interessi che sembra apparentemente inattaccabile e invincibile.

 

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1 Commento


  • Francisco

    Un paese non è diviso in partiti ma in classi sociali ed è lì che si sceglie, altrimenti i politici rappresenterebbero numeri da condominio, complice l’astensionismo l’astensionismo.
    Una classe subalterna sceglie un ISTRUITO COMPETENTE che proviene da famiglia proletaria, una classe dominante sceglie un ISTRUITO COMPETENTE che proviene da classe borghese.
    Checché se ne dica le varie femmine (per esempio) al timone vengono da una sola classe… vedi Boschi, Madia, Guidi, Raggi, Appendino etc… da lì possiamo anche discutere di temi come il REDDITO da CITTADINANZA, da non confondere col SALARIO MINIMO GARANTITO, la storia dice che il capitale non lesina elemosine pur di tenere la barra dritta, quindi si guarderà bene dal permettere un salario miimo garantito ma concederà il reddito di cittadinanza in casi di emergenza.
    De Magistris lo terrei fuori da queste dinamiche, le cose le ha dette e fatte, i 5 stelle cincischiano chiacchiere ma non concludono. Esempio magistrale il TAV… ci hanno preso i voti nel 2013, passeggiata parlamentari l’indomani del voto con “doveroso” endorsement ai NoTav e poi spariti, in tre incontri streaming con Renzi non hanno mai nominato TAV, F35, MUOS… la contestazione al TAV ancora oggi solo nei proclami, vedi nel futuro dell’Appendino.
    Il degrado delle periferie non ha soltanto inciso sulla qualità della vita ma soprattutto sulle scelte politiche del “popolino”, ormai bilioso, incazzato, razzista e xenofobo, quindi un po’ fascistizzato… mi sarei meravigliato di un voto diverso da quelle parti, dove la fanno da padrone Casapound e Forza Nuova che si fanno rappresentare dai 5 stelle.

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