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La dittatura degli intelligenti: paidocrazia

Con questa pedanteria, a cui ne seguiranno altre della stessa serie (“La dittatura degli intelligenti”), mi piace sviluppare una riflessione già avviata ne Lo schiavismo dei buoni, sui modi in cui concetti verbalmente consegnati a un passato da deplorare – lo schiavismo e il colonialismo nell’articolo citato, il totalitarismo e l’eugenetica nel caso qui rappresentato – ritornano a sedurre la coscienza delle masse e, in particolare, di coloro che se ne reputano i nemici culturalmente ed eticamente più attrezzati.

L’occasione è offerta dalle note reazioni al voto del 23 giugno sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Una valutazione degli effetti geopolitici dell’evento eccede le competenze di chi scrive, né in fondo è rilevante. La narrazione politico-mediatica che ne è scaturita indica infatti una ben più urgente, tangibile e immediata intolleranza alla democrazia come norma costituente del pensiero e dell’azione in politica che, come si è già scritto su questo blog, si manifesta nella normalizzazione culturale della critica non già alle decisioni (ad rem), ma al metodo democratico (ad medium) e a chi vi partecipa (ad personas).

Complice anche la mancanza pressoché totale di argomenti razionali, all’indomani del voto coloro che speravano nella permanenza degli inglesi nell’Unione si sono esibiti, con la certezza dell’impunità e dell’autogiustificazione che solo il branco sa dare, in un’esercizio di delegittimazione non solo della volontà popolare ma anche del popolo stesso, disprezzato nella sua maggioranza democratica in quanto vecchio, pavido, ignorante e protervo. Un popolo i cui bassi istinti dovrebbero quindi essere esclusi dal processo decisionale e imbrigliati alla lungimiranza dei pochi. Quando l’invocazione dell’oligarchia sbarca sulle prime pagine dei giornali, e senza più nemmeno il velo pietoso dell’emergenza, i tempi sono culturalmente maturi per un cambio di regime in cui il passato peggiore si ripresenta sotto le spoglie di un futuro migliore. Che è poi la missione di chi, negli ultimi venti o trent’anni, ha vestito i panni onorabili e vezzeggiati del progressismo simmetricamente caro alle masse e alle élite.

A noi fastidiosi e pedanti spetta invece l’onere di dare una testimonianza storica di questa triste transizione enucleandone le strategie dialettiche a futura memoria. Ciò senza naturalmente illuderci di frenare la corsa di greggi ormai lanciate e pronte a travolgere tutto – la storia, i più deboli, il proprio stesso interesse – e che purtroppo non si fermeranno, anzi, caricheranno sempre più forte rincorrendo l’unica ebbrezza che dia senso alle loro manipolate esistenze: quella di credersi parte di un’umanità eletta e migliore.

Quelli della paidocrazia

Di primo acchito, la storia degli anziani tremebondi e nostalgici che votano Leave nell’illusione di resuscitare l’impero di Sua Maestà – quasi fossero nati in epoca vittoriana – sembra una narrazione sgradevole ma puerile per digerire la frustrazione della sconfitta da parte di chi, ignorandone le cause, si consola buttandola sui massimi sistemi. Evidentemente il voto geriatrico è un problema solo quando non rispetta i desiderata dell’establishment. Nessuno si è lamentato, ad esempio, quando la metà degli over 65 italiani ha votato in blocco PD. Possiamo allora immaginare che, se a determinare la secessione fossero state le schede dei giovani inglesi, si sarebbe detto che erano bamboccioni, impulsivi e indegni delle conquiste dei padri.

O forse no. Se è vero, come è vero, che i dati su cui poggiavano questi attacchi sono dubbi nella fonte (provengono dagli stessi sondaggisti che davano per certa la vittoria del Remain) e sbagliati nell’interpretazione (i giovani in realtà hanno disertato le urne), è giusto chiedersi se questa velina apparsa ovunque non fosse già nelle corde – se non nei diktat – della stampa ufficiale. Di solito ciò che è falso è anche pretestuoso e anche in questo caso, leggendo oltre i titoli, scopriamo in effetti che l’attacco a chi è vecchio nasconde piuttosto un attacco a ciò che è vecchio, sule note di un’ordinaria retorica della rottamazione, delle riforme e della radicalità in cui il futuro è ontologicamente migliore del passato a prescindere da ciò che promette.

In questa dialettica anziani e giovani non sono altro che dramatis personae per indicare il vecchio e il nuovo, e quest’ultimo non è altro che l’agenda governativa in corso. Agli anziani tutti metaforici di questa mitografia si attribuisce la “paura del cambiamento” e l’attaccamento “antistorico” alle certezze del passato, “dall’alto delle loro pensioni, dei loro ricordi di gioventù e dai cuscini di un divano al di fuori del mondo e del futuro”. Ora, a parte il fatto che i riformisti sono semmai coloro che scelgono di cambiare lo status quo e hanno il coraggio di affrontarne le conseguenze (quindi i brexiters), il vecchiume a cui si allude nel frame è, come ha giustamente osservato Paola Pellegrini, il retaggio di sicurezze lavorative, sociali e patrimoniali che hanno effettivamente caratterizzato le gioventù degli elettori più stagionati e il periodo economicamente più florido del nostro continente. Non contenti di averle ampiamente smantellate nei fatti, i governi europei e i loro più o meno consapevoli corifei puntano oggi a squalificarle anche nell’immaginario associandole ai volti bavosi e sdentati degli orchi e delle streghe che, come nelle fiabe, divorano i bimbi rubando loro il futuro.

La vicenda, già in sé squallida, potrebbe chiudersi qui, con l’ennesima variazione narrativa sui pregi – tutti rigorosamente etici e pedagogici – di una globalità precaria, sedicente giovane e pretenziosamente progressiva, à la Zalone. Se non fosse che le metafore, come l’ironia, quando attecchiscono nel giardino dei servi troppo zelanti producono frutti reali. Sicché la fantasiosa crociata contro il voto degli anziani si è subito trasformata in un attacco reale al diritto di voto degli anziani, e quindi al suffragio universale, aprendo varchi inquietanti sugli umori antidemocratici che covano tra chi serve l’establishment.

Andrea Cominetti su La Stampa presenta i risultati di un computo: i giovani inglesi “vivranno le conseguenze del voto per una media di 69 anni, a fronte dei 16 degli ultra sessantenni”. Eggià, se tanto i vecchi devono crepare, che senso ha interpellarli su decisioni che riguardano il futuro della nazione? Vano sarebbe chiedere al giovin signore quali decisioni non riguardino il futuro, quindi tanto vale aiutarlo a perfezionare la tesi: in base allo stesso principio si dovrebbe mettere in discussione anche il voto dei giovani affetti da malattie gravi e anche quello dei poveri, la cui aspettativa di vita è mediamente più breve. Antonio Padellaro, che è sì ultra sessantenne ma a differenza della “massa di vecchi, perlopiù rancorosi e piagnucolosi” si sente giovane dentro (corollario dell’Equazione di Scanavacca), odia la sua generazione ed esprime il suo amore per quelle successive rassicurandole così: “l’età dell’oro […] difficilmente si ripeterà”. Ovviamente per colpa degli ex giovani che in tempi migliori “spendevano e spandevano a meraviglia, strapagando pensioni d’oro e falsi invalidi, e tutti facevamo finta di non sapere che il mostruoso debito di allora avrebbe pesato come un macigno sui nostri figli e nipoti” ecc. ecc. E oggi osano pure votare.

Hélène Bekmezian, cronista politica di Le Monde, la butta là: “Il diritto di voto è come la patente: francamente, dopo una certa età andrebbe revocato”. Più tecnica la proposta di Luca Dini, direttore di Vanity Fair: “Invece di vietare il voto alla gente nei primi 18 anni di vita, perché non negli ultimi 18?”. L’allusione alla certezza del fine vita (aka eutanasia) è rigorosamente casuale e non voluta. Sul fronte politico Alessia Mosca, eurodeputata del partito più votato dai pensionati italiani, esprime su Twitter “tristezza e rabbia […] perché i più anziani hanno deciso il futuro dei giovani contro la loro volontà“. Che gli eventuali giovani avrebbero votato contro la volontà degli anziani non è invece un problema, anzi. Ma apprezziamo lo sforzo: i nonni possono sì votare come gli pare, purché prima chiedano il permesso ai nipoti.

Poi certo, ci mancherebbe. Quasi tutti i suddetti, e molti altri, si sono in seguito premurati di chiarire che le loro erano battute, provocazioni, plaisanteries gradevoli e frizzanti come le barzellette sui campi di sterminio. Senonché nel formulare, ripetere e moltiplicare questi concetti dai loro scranni mediatici hanno infranto un tabù e reso discutibile l’indiscutibile, spalancando i cancelli a ulteriori e più sistematiche rielaborazioni. Come negli anni trenta, quando il gossip antisemita dei salotti doveva transitare per la forma furbescamente dubitativa dei giornali prima di approdare alle dissertazioni dei dotti e, di lì, alla certezza della legge, anche in questo caso lo sdoganamento giornalistico ha già dato la stura ai primi assist accademici, cioè alla penultima fase del processo. Ecco infatti, sulle pagine di Repubblica, l’altrimenti oscuro Alessandro Rosina rispolverare la tesi del voto ponderato per “allentare il vincolo che impone che il voto di un ottantenne valga come quello di un ventenne”. Dalle provocazioni ai paper il passo è breve, ma soprattutto funzionale.

 

da http://ilpedante.org/

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