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L’articolo 139: «Presidenza lunga» e «Principato di Napolitano»

La differenza tra un "buon presidente" e un "pessimo monarca". Bisogna dire che Giorgio Napolitano ha mantenuto una sua torva coerenza in tutta la sua storia: sempre contro la Storia, sempre a favore del "potere che c'è", chiunque sia.

A ben vedere, questo contrasto – evidenziato dall'intervento di Giuseppe Aragno – tra l'occhiuto esponente del "fronte della fermezza" e colui che ne sarebbe stato sacrificato senza un'esitazione risale così lontano negli anni da non potersi definire altrimenti che come un'opposizione ontologica tra due concezioni del potere e della politica. All'interno, ovviamente, del puro dominio della borghesia. Diciamo la stessa differenza che passa tra la faticosa "democrazia della rappresentanza" (ovviamente ultrasbilanciata) e la pura e semplice dittatura.

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Bisognerebbe ringraziare Umberto Nobile, progettista e sfortunato protagonista di trasvolate polari, che si trovò contro Italo Balbo e i fascisti, scelse l’esilio volontario nella Russia sovietica e negli Stati Uniti e fu eletto deputato alla Costituente, tra gli indipendenti nelle liste del Partito comunista; con lui merita un ricordo per la cultura, la passione e l’ingegno, un altro dei padri Costituenti, Paolo Rossi, giurista e perseguitato politico, al quale gli squadristi bruciarono lo studio di avvocato e la censura bloccò i libri che aveva scritto. Rossi si era occupato dello scetticismo e del dogma nel diritto penale e aveva scritto della «pena di morte e della sua critica» in un Paese così imbarbarito, da ripudiare Beccaria e tornare alla pena capitale. Sul significato storico della parola «tornare» manca – e sarebbe molto utile – uno studio accurato, in un Paese che ritiene «giovane» il codice del fascista Rocco, ma rottama la Costituzione nata dall’antifascismo e dalla Resistenza e lo fa, in un’Europa tornata alla guerra sin dagli anni della tragedia balcanica, tornata al colonialismo coi raid sulla Libia, tornata al razzismo e ai confini sbarrati, tornata ai campi d’internamento, tornata allo sterminio quotidiano, stavolta nel Mediterraneo, e tornata alle alleanze con i «dittatori amici».

Bisognerebbe ringraziarli, perché al termine della discussione nell’Assemblea Costituente seppero difendere una norma che poteva sembrare superflua e oggi, costituisce l’articolo 139, l’ultimo articolo della Costituzione, quello che afferma un’apparente ovvietà: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». E’ questo il testo definitivo e lo si deve a Nobile. In tanti lo ritenevano inutile e antigiuridico, ma per fortuna Gronchi, esprimendo il parere favorevole del gruppo democristiano, ricordò che la questione del regime repubblicano era stata decisa da un referendum ed era quindi «evidente che, data l’origine attraverso la quale l’attuale forma dello Stato è nata e va consolidandosi, essa non potrebbe essere modificata che da una consultazione diretta fatta nella stessa forma attraverso la quale essa è sorta».

Quell’articolo «ha il valore di una solenne affermazione politica che la prima Costituzione italiana non può, in alcun modo omettere», sostenne Rossi, ricordando che non si trattava di una novità inutile: l’immutabilità della forma repubblicana conclude quasi tutte le Costituzioni repubblicane del mondo. Quanti di quelli che hanno approvato la nuova Costituzione potrebbero dire oggi di conoscere le attuali Costituzioni repubblicane? Quanti hanno mai letto le migliaia di pagine che riportano fedelmente le discussioni dell’Assemblea Costituente? Probabilmente nessuno. La stragrande maggioranza non conosce, come pure dovrebbe, la Costituzione della Repubblica, che in quelle pagine spiega le ragioni storiche, politiche ed etiche per cui oggi essa è come noi la leggiamo. Ripugna alla coscienza che qualcuno cambi qualcosa senza conoscerla a fondo, in soprattutto se si tratta di Costituzione, perché gli eventi di questi ultimi anni hanno dimostrato che nulla può esser dato per certo, nemmeno la forma repubblicana, se gli interessi in campo lo richiedono.

Giorgio Napolitano, infatti è stato eletto due volte Presidente della Repubblica. Poteva farlo? Si è detto di sì, perché la Costituzione non lo proibisce. Ed è vero. Ma la Costituzione non proibisce nemmeno che qualcuno sia eletto tre, quattro e pure cinque volte. Napolitano ha potuto introdurre così una novità assoluta, che per ora, dispiace per Rossi, Nobile e Gronchi, ci si può contentare di chiamare «Presidenza lunga» o forse, e meglio, «Principato di Napolitano». Qualcuno, seguendo la via nuova potrà domani seguirne l’esempio e prolungare il soggiorno al Quirinale per il numero di volte che sembrerà opportuno. La Costituzione in proposito non si pronuncia e un Parlamento riformato come promettono Renzi, Boschi e Verdini si limiterà ad approvare.

Sulla rieleggibilità del Presidente della Repubblica c’è stata di recente una sorta di non diagnosticata e inspiegata amnesia collettiva ed è sembrato che nessun membro dell’Assemblea Costituente si fosse posto il problema con la dovuta chiarezza. Le cose però non stanno così. Quando Emilio Lussu propose di ridurre la durata del mandato da sette a cinque anni, si obiettò che la durata del mandato non era di per sé un problema e Lami Starnuti propose una correzione più logica: sette anni e la precisazione «non è rieleggibile». Una precisazione che sarebbe stato saggio approvare. Alle perplessità dell’attivo Paolo Rossi emerse poi una modifica alla modifica: «non è immediatamente rieleggibile», ma la proposta non passò. Ci tornò sopra successivamente un altro deputato alla Costituente, Palmiro Togliatti, segretario politico del Pci, il partito dell’allora giovanissimo Giorgio Napolitano, passato in brevissimo tempo dal Gruppo Universitario fascista alla segreteria federale di Caserta. Togliatti insistette perché si inserisse esplicitamente la non eleggibilità immediata.

Fu un altro giovane, Aldo Moro, a far notare che la durata di sette anni annullava di per sé la possibilità di rielezione di un buon presidente. Sembrò a tutti, allora, che un Presidente di così basso profilo non potesse nascere e si decise di soprassedere. Era necessario che un presidente durasse in carica per sette anni, sostenne, infine Tosato, replicando ad alcune obiezioni di Francesco Saverio Nitti, in modo da garantire la stabilità del sistema, ma rimaneva ferma la convinzione espressa da Aldo Moro e da tutti condivisa: ogni buon Presidente si sarebbe naturalmente fermato lì, senza bisogno di un’umiliante prescrizione scritta.

Napolitano ha smentito il povero Moro e le certezze dei padri costituenti. I pessimi Presidenti possono esistere. Occorre un Parlamento di «nominati». E’ accaduto, ma non è vero che la rielezione non sia stata esclusa da chi ha scritto la Costituzione. E’ stata considerata, invece, così aberrante, da apparire impossibile. Con buona pace della legalità repubblicana.

da https://giuseppearagno.wordpress.com/

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