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Il nemico interno e il silenzio della politica

Sabato scorso abbiamo pubblicato una video-denuncia di un compagno italiano che ha raggiunto le unità di protezione popolare YPG/YPJ che stanno combattendo contro lo Stato islamico in Siria. Nel filmato si vede un combattente con il volto coperto raccontare la situazione che vive ogni giorno chi è in prima linea contro l’ISIS e rivolgere in seguito un appello alle autorità italiane perché rompano i rapporti con la Turchia, che da anni foraggia quello che a parole dovrebbe essere il nemico numero uno dell’umanità.

All’appello è seguito un imbarazzante silenzio da parte delle autorità interpellate e della politica tutta, con l’eccezione di un noto senatore PD che una volta di più non ha perso occasione per coprirsi di ridicolo con le sue idiozie a 140 caratteri. Sollecitati nel merito di questioni importanti, quali gli impresentabili rapporti dell’Italia con paesi come la Turchia e l’Arabia Saudita, Renzi e il suo entourage diplomatico (gli stessi cui secondo qualcuno dovremmo affidare fiduciosi la gestione in via esclusiva di quanto sta accadendo nel quadro internazionale), hanno preferito trincerarsi dietro un emblematico muro di silenzio.

Diversa invece l’accoglienza che il video ha ricevuto sui media italiani, rispetto ai quali ci sembrano importanti alcune considerazioni: la decisione di alcune testate di rivelare l’identità del compagno in questione senza alcun assenso dell’interessato, oltre a essere scorretta, ha evidenziato una volta di più la povertà dei meccanismi che muovono le redazioni dei principali giornali italiani. Le esigenze diaudience impongono di deviare la notizia verso dettagli morbosi, spoliticizzandola e svuotandola del messaggio per cui era nata. Non è importante approfondire il contesto in cui maturano le scelte di colui o colei che decide di mettere in gioco il proprio corpo nelle battaglie in cui crede, amplificarne il messaggio di denuncia o raccontare il movimento di cui fa parte: il giornalista italiano vuole sapere chi si cela dietro la maschera, che si tratti di un fazzoletto davanti a un cantiere a Chiomonte o di una kefia sul fronte contro l’ISIS, e andare a caccia di dettagli sulla sua vita privata.

È abbastanza sconfortante constatare come, a dispetto della disponibilità di inviati e di mezzi di cui dispongono, la maggior parte dei grossi mezzi di informazione sia schiacciata su un livello così basso e di “gossip”, quando non impegnata a fare vera e propria disinformazione e confusione su quanto accade in quei territori. Il tentativo di fare chiarezza, di individuare delle responsabilità e di costruire un’informazione di qualità ricade allora sulle spalle di chi ha fatto scelte come quella di Davide.

A questo proposito riportiamo le parole che lui stesso ha scritto sul proprio profilo nelle ultime ore: “Mi trovo nella sede dell'agenzia Anha News di Kobane, dove i giornalisti curdi tentano in condizioni estreme di fare informazione su ciò che accade. Ne approfitto per dire a tutti i giornalisti italiani che non rilascio interviste, l'importante è nel video e la mia vita privata non ha importanza in questo contesto. Dimostrate coraggio e rivolgete invece domande a Matteo Renzi, Federica Mogherini e Staffan de Mistura: loro devono delle spiegazioni, ma a loro nessuno chiede niente. Il lavoro del giornalista ha senso se sa sfidare i potenti. Rivolgere loro le domande che io pongo nel video è un dovere verso le popolazioni colpite, verso chi ha perso la vita negli attentati in Europa e verso i civili e i combattenti per la libertà che muoiono ogni ora sotto le violenze dell'Isis e i bombardamenti dell'esercito turco. Loro devono rispondere, noi dobbiamo resistere. Dimostrate che in Italia è possibile un'informazione libera!”.

A confondere poi ulteriormente le acque c’è la scelta di tutte le testate di parlare nei titoli di “foreign fighter”, un anglicismo solitamente usato per descrivere i miliziani che raggiungono lo Stato islamico, quasi a far passare il messaggio irricevibile che in fondo poco cambia partire per schierarsi dalla parte dell’Isis o da quella di chi lo combatte. La possibilità di compiere scelte nette come quella di Davide va screditata a priori come impropria perché mette in crisi la retorica rassicurante che ci vorrebbe impotenti e rassegnati di fronte alla complessità di certi fenomeni; secondo cui l’unico spazio che ci è concesso è al massimo quello di un po’ di opinionismo e indignazione da social network e per il resto non resta che aspettare fiduciosi che sia l’azione dei nostri governi a trovare una soluzione.

Il messaggio che ci viene lanciato dal Kurdistan è esattamente l’opposto: il nemico non è alle porte perché ce l’abbiamo già in casa, è chi ci governa qui in Italia e in Europa, sta a noi metterli davanti alle loro responsabilità. Il disimpegno, l’ignavia, il nascondersi dietro alla complessità dei fenomeni mediorientali per evitare di prendere posizione sono errori che non possiamo più permetterci. Sono comportamenti che si riflettono non solo sulle vite di migliaia di persone che stanno lottando per la propria libertà in Siria ma sulle nostre stesse vite qui in Occidente, questo ultimo anno e mezzo di attentati dovrebbe averci insegnato almeno questo.

Un’ultima postilla vorremmo dedicarla alle anime belle che in questi giorni si sono indignate per la presenza di un compagno in Kurdistan o per quella di un kalashnikov nel video, riducendo tutto a inutili chiacchiere su precedenti penali e pericolosità sociale. Lasciamo nuovamente che siano le parole di Davide a rispondere sul punto: “Repubblica ha scritto che adesso sarei latitante per la procura di Torino… Perché'? Perché mi contrappongo a persone che compiono continui massacri, responsabili dello stupro di migliaia di donne, che decapitano i bambini iracheni che ascoltano musica rock, che hanno riempito di 15.000 cadaveri fosse comuni in tutta la Siria, che hanno trucidato centinaia di civili inermi in Belgio e in Francia? Dicono che sono pericoloso perché ho in mano un Kalashnikov… Venite voi a trasportare i cadaveri smembrati dei vostri amici, a vederli morire dissanguati sotto i colpi delle mitragliatrici, venite voi nelle città dove ai prigionieri vengono asportati entrambi gli occhi con i coltelli, segate le gambe e le braccia… Ma di che parlate? Venite voi senza un'arma in mano. Nessuno può vivere in Siria senza un'arma, e combattere senza armi non si può. Lo stato italiano, l'ho già detto, pensi piuttosto a ciò che fanno i suoi alleati in questa regione… la Turchia, l'Arabia Saudita, il Qatar. Allora forse saprà distinguere tra la violenza inaudita messa in atto o propiziata dei suoi alleati e la violenza necessaria di chi lotta per la fine di questa barbarie”.

Davide, e tanti compagni con lui, stanno facendo il loro. Noi facciamo il nostro.

da Infoaut

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