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Dopo la Brexit che fine farà l’Europa delle banche e dell’euro?

Qui di seguito l'intervento di Ross@ al dibattito pubblico su "L'Europa delle banche e dell'euro dopo la Brexit" tenutosi a Parma alcuni giorni fa:

L’idea che Ross@ Parma collaborasse con il Movimento 5 Stelle alla realizzazione di questo incontro ha suscitato, a sinistra, alcune perplessità, ironie e qualche scomunica. Per rispondere a queste critiche basta riprendere alcune espressioni, usate dai relatori che mi hanno preceduto per definire le dinamiche caratterizzanti l’Unione Europea e la moneta unica: “strumento di potere del capitale sul lavoro”, “lotta di classe dall’alto”, “imperialismo”, “colonizzazione”, “perdita del controllo democratico”. 

Se questo è il quadro a noi sembra chiaro che dichiararsi anticapitalisti oggi, senza al contempo schierarsi apertamente contro la realtà efficacemente descritta dal Prof. Pavarani e da Marco Zanni, equivarrebbe, permettetemi la battuta, a definirsi non violenti, ma poi avere qualche simpatia per Jack lo Squartatore… D’altra parte, ormai da qualche anno Ross@ lavora in termini di analisi, discussione pubblica e, dove possibile, intervento nei movimenti sociali, su due punti fondamentali: a) la sostanziale irriformabilità dell’Unione Europea e del suo impianto neoliberale e, dunque,  la necessità di rompere con l’intera struttura istituzionale incarnata dai Trattati europei (da Maastricht a Lisbona, sottoscritti da governi indifferentemente di destra, Lega compresa, e di sinistra); b) l’identificazione del Partito Democratico come snodo centrale di un sistema di interessi e di strutture sindacali, sociali e culturali che di questo sistema europeo è il principale agente italiano e, quindi, il principale nemico politico. Con chi dovremmo dialogare, dunque, se non con chi affronta questi temi con coraggio e competenza e con chi, pur muovendo da impostazioni differenti, cerca di fornire ad essi una risposta politica?

A partire da queste premesse vorrei solo aggiungere alcune considerazioni a quanto detto da chi mi ha preceduto.

In primo luogo è per noi essenziale comprendere l’inscindibilità tra il funzionamento della moneta unica e la logica complessiva che guida i trattati fondativi dell’Unione Europea, attraverso un modello di “economia sociale di mercato fortemente competitiva” che trova nella “stabilità dei prezzi” il cardine a cui sono subordinate tutte le scelte economiche e monetarie. Bisogna essere consapevoli che ciò che abbiamo chiamato “austerità” e che non indica altro che il rapporto di subordinazione dei cosiddetti PIIGS ai paesi centrali (in primis Germania) è una conseguenza coerente di questo assetto e che, allo stesso tempo, è impossibile uscire dall’euro senza mettere in discussione l’impianto istituzionale complessivo della UE (l’esistenza di Paesi con deroga, come era l’Inghilterra, non smentisce, ma conferma, questo legame). Il fatto è che l’unione monetaria è prima di tutto uno strumento politico (analogamente, come spiega Vladimiro Giacché, a quanto sperimentato nel processo di unificazione in Germania), un cappio e al tempo stesso un’arma di ricatto per imporre svalorizzazione e precarizzazione del lavoro, dismissione del patrimonio industriale, riduzione dell’accesso al credito alle famiglie e alle piccole imprese, privatizzazione progressiva dello stato sociale.

A caratterizzare la UE è, però, anche un sistema di governance che non si ferma ai soli Trattati costitutivi, ma che esercita la propria azione attraverso una serie di “regolamenti”, “direttive”, “decisioni”, “raccomandazioni”, misure non convenzionali, tutti strumenti volti a dare flessibilità e resilienza (concetto su cui molto si insiste dopo la crisi) all’impianto neoliberale europeo, pur nella sostanziale invarianza della sua logica di fondo. Ciò che è importante sottolineare è che tale governance si sviluppa su diversi livelli – locale, nazionale, sovranazionale – rendendo sempre più difficile un’azione politica alternativa che si limiti ad uno solo di questi spazi. Per rendersene si pensi a come ha agito il Fiscal Compact nei vincoli di spesa imposti agli enti locali, contribuendo a trasformali in gangli strategici di privatizzazione e messa a valore finanziaria di territorio, patrimonio e servizi. Si pensi, soprattutto, alla revisione dell’articolo 81 della Costituzione, che introducendo il vincolo del pareggio di bilancio, di fatto svuota dall’interno le indicazioni fornite dalla carta costituzionale (rendendo impossibili, ad esempio, politiche industriali che comportino investimenti pubblici)

Oggi questo assetto è sicuramente in crisi e molto si discute se la tendenza principale sia alla disintegrazione dell’intero sistema o ad un suo rilancio. Un tentativo in quest’ultima direzione può essere individuato nella relazione dei 5 Presidenti Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa, dove vediamo profilarsi “la creazione da parte di ciascuno membro della zona euro di un organismo nazionale incaricato di monitorare i risultati e le politiche in materia di competitività”, con particolare attenzione “all’allineamento tra retribuzioni e produttività”, e, al contempo, di un’unione di bilancio che programmaticamente escluda “trasferimenti permanenti tra paesi o trasferimenti in un’unica direzione” e non si traduca, quindi, in “strumento di perequazione dei redditi tra gli Stati membri”. Certamente una riforma, dunque, ma ben lontana dal cambiamento di marcia in senso “progressista” ancora auspicato da tanti “altreuropeisti”. In ogni caso, se è vero che, come ebbe a dire Jean Monnet, la costruzione europea si è sempre rafforzata attraverso le proprie crisi, è anche vero che questa volta la crisi appare particolarmente profonda, incrinando la base di appoggio (per ragioni e interessi evidentemente opposti) delle classi dirigenti dei paesi del sud come di quelli centrali, facendo riemergere con forza divergenze tra gli interessi nazionali, esplicitando ulteriormente la fine di quel “consenso permissivo” che in passato aveva accompagnato il processo di costruzione europea. Non solo siamo di fonte ad una crisi della governance europea, ma essa appare come tale, nonostante la resistenza di molti tabù e la debolezza di narrazioni alternative, a settori crescenti delle popolazioni europee. In questo, al di là di come verrà gestito il processo di uscita, risiede il significato politico esemplare della Brexit.

Si è aperta, dunque, una finestra storica contraddittoria, nella quale giocheranno molteplici agenti. Tra questi non è da trascurare il ruolo che potranno ricoprire gli USA, evidentemente sempre più insofferenti dello stallo in cui il rigorismo tedesco ha condotto il progetto europeo – come le tensioni sull’Ucraina, sul TTIP, sugli scandali Volkswagen e Deutsche Bank dimostrano – ma ancora oscillanti tra l’ipotesi di un rilancio di questo stesso progetto (ipotesi convergente con le misure non convenzionali adottate, in cambio di interventi strutturali di marca neoliberale, da Mario Draghi o con le recenti prese di posizione del FMI per maggiore flessibilità orientata all’accoglienza dei migranti) e un processo di devoluzione verso gli stati nazionali (ipotesi espressa recentemente da Jakub J. Grygiel su “Foreign Affairs”). È probabile che, all’interno di questo processo contraddittorio, uno degli scenari decisivi sia proprio quello italiano, anche per il significato assunto dalla prova referendaria del 4 dicembre (e paventato, non a caso, da “Wall Street Journal” e “Financial Times”).

La stessa eventuale e auspicata caduta del governo Renzi potrebbe aprire una situazione di emergenza, di fronte alla quale le diverse forze saranno chiamate a fare chiarezza sulla loro prospettiva strategica e, allo stesso tempo, ad adottare linguaggi, tattiche e alleanze nuove, nella consapevolezza della portata storica di questo passaggio. Come spesso accade in politica ci troveremo ad agire in circostanze che solo in minima parte avremo contribuito a determinare, ma che sarà nostro compito sfruttare per fare sì che la prospettiva antiunionista, la resistenza all’Europa neoliberale, faccia un salto qualitativo, diventando patrimonio condiviso di quanta più gente possibile.

Noi pensiamo che si possa operare insieme in questa direzione e ci rivolgiamo a Marco Zanni e agli attivisti del Movimento 5 Stelle, affinché dal basso si possa sviluppare un fronte largo di forze intellettuali, sociali e politiche in grado di produrre analisi, proposte, momenti di mobilitazione all’altezza di questa sfida. In questo senso il Movimento 5 Stelle potrebbe avere un ruolo centrale nel fare della parola d’ordine della “sovranità popolare” il catalizzatore di un processo diffuso di consapevolezza, necessario per reggere l’urto contro politiche di cui il caso greco ci ha insegnato la spietatezza. Fondamentale sarà, allora, la capacità di non deludere quei bisogni sociali e quelle istanze del mondo del lavoro che solo da poco hanno iniziato a rompere i loro vincoli di subalternità con la sinistra eurista. In questa prospettiva istanze come quelle che verranno avanzate da USB e Carovana delle Periferie nei confronti della giunta di Virginia Raggi nella giornata del 4 ottobre (audit sul debito, difesa del carattere pubblico delle aziende preposte a servizi di interesse collettivo, reinternalizzazioni, rinnovi dei contratti e reddito di cittadinanza municipale, ecc.) dovrebbero essere ascoltate dal Movimento e distinte dagli attacchi di quella “sinistra” che troppo spesso preferisce indossare le vesti di “guardia plebea” dell’establishment.

Per parte nostra crediamo che molti, singoli e forze organizzate, potrebbero concordare su un percorso comune che si sviluppi, al di là di identitarismi, diffidenze e timidezze, a partire da due fronti:

a) L’impegno per fare vincere il NO contro la riforma costituzionale del governo Renzi e, soprattutto, per promuovere nelle persone la consapevolezza della sua portata. Si tratta di comprendere come, al di là dei tecnicismi, pur importanti, sul testo della riforma, in gioco sia il rifiuto di un intero assetto, tendente all’istituzionalizzazione della governance europea e, più in generale, alla completa permeabilità del nostro ordinamento alle pressioni della finanza. È questa la “governabilità” di cui parlano!

b) Lo sforzo per fare in modo che la parola d’ordine della rottura dell’euro e della UE acquisti credibilità agli occhi della maggioranza di quanti delle politiche euriste pagano quotidianamente il conto. L’Italexit deve e può cessare di essere avvertita da questi settori come una velleità estremistica! Ciò significa, per fare solo pochi esempi, attivare laboratori trasversali alle diverse forze per discutere su come invertire la rotta rispetto alla deindustrializzazione e all’impoverimento forzato del nostro paese (magari indagando il ruolo, più o meno subordinato, in cui molte nostre imprese si trovano a giocare nelle filiere transnazionali della produzione e, viceversa, come invece stiano operando grandi gruppi italiani, ormai sottratti ad ogni tipo di controllo governativo), su come, contestualmente, frenare la svalorizzazione e precarizzazione del lavoro che, in questo contesto, appaiono gli strumenti principali per recuperare competitività, su come, infine, innescare processi di cooperazione internazionale diversi da quelli previsti dall’Unione (occorre rifiutare, infatti, la falsa alternativa tra quest’ultima e un’impossibile autarchia, smascherando al contempo la narrazione che fa coincidere UE ed Europa, cosmopolitismo dei gruppi dominanti e internazionalismo).

Il nostro intervento vuole, dunque, essere anche un invito affinché ognuno, in forme che rispettino le diverse impostazioni, contribuisca ad approfondire le analisi, a moltiplicare i rapporti e ad accumulare le forze necessarie per affrontare l’urgenza del presente. Forse quelli che stanno in alto già non possono più limitarsi a governare come un tempo. Il nostro compito comune, prima che il loro potere si stabilizzi in forme ancora più pervasive, è fare in modo che chi sta in basso non voglia più obbedire come un tempo.

                    V. Giacché, Anschluss – L’annessione: l’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, Reggio Emilia 2014.

 

 

             G. Majone, Integrazione europea, tecnocrazia e deficit democratico, Osservatorio sull’Analisi di Impatto della Regolazione, www.osservatorioair.it, settembre 2010.

 

 

             Cfr. P. Fagan, Italia-Europa-Mondo, https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/09/26/italia-europa-mondo/, 26 settembre 2016.

 

 

             Cfr. il recente vertice dell’European Round Table of Industrialists dedicato all’“agenda digitale”, alla presenza di Juncker, Merkel, Hollande, ma non di Renzi: http://www.corriere.it/esteri/16_settembre_23/berlino-vertice-junker-merkel-hollande-1982e2ce-8199-11e6-bb54-ccc86a7805dc.shtml

 

 

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