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Valutazione e competenze: se la scuola è una macchina, noi saremo la sabbia

Voglio proporre una riflessione in merito alle cosiddette prove per classi parallele che andremo a effettuare nella mia scuola nei prossimi giorni, così come avviene ormai in quasi tutte le scuole superiori di secondo grado, al fine di riflettere però in modo più ampio sul concetto di valutazione nonché sul concetto di miglioramento, termini declinati assieme, unitamente al concetto di competenza, tutti presenti in modo a dir poco ossessivo nel testo della legge 107/2015 altresì nota come “Buona scuola”1.

Credo che sia ormai giunto il tempo di fare un bilancio della legge suddetta che ha radicalmente sovvertito i rapporti di lavoro, di studio, di convivenza, interni al mondo della scuola, portando a compimento un lungo processo, ventennale, iniziato con l’introduzione della cosiddetta autonomia scolastica2.

Ma partiamo dai fatti. Siamo impegnati sia come docenti che come studenti per una intera settimana a ritmi serrati nella stesura ed esecuzione di prove per classi parallele su tutte le discipline e in tutte le classi. Qui di seguito potete visionare alcuni esempi di prove parallele costruite dall’INVALSI per Matematica e Italiano: http://www.invalsi.it/snv1011/documenti/Esempi_prova_scuola_secondaria_secondo_grado.pdf

L’adempimento delle prove parallele ha un riferimento normativo generico, di massima, indicativo nel RAV (Rapporto di autovalutazione)3 laddove si consiglia alla singola scuola, compatibilmente con le condizioni reali in cui questa si ritrova, di affidare ai Dipartimenti: a) la progettazione didattica per aree disciplinari e/o per classi parallele; b) il compito di incentivare la Collaborazione fra pari (fra Docenti) nei Dipartimenti stessi e/o in gruppi di lavoro spontanei e trasversali cioè interdisciplinari, volti alla massima condivisione dei saperi, dei materiali, degli strumenti, ecc.; c) la costruzione di prove parallele per una valutazione comparata degli studenti. D’altra parte, tale passaggio richiama il testo unico della legislazione scolastica4, laddove viene individuato il Collegio docenti con le sue articolazioni come il concreto artefice di tutto ciò che cade sotto la progettazione della didattica.

Tutto ciò è recepito nel PTOF (Piano Triennale Offerta Formativa) delle singole scuole che autonomamente compilano il RAV e il PDM (Piano di miglioramento)5. In generale, e quindi non solo per la singola scuola, tutto ciò ha un fondamentale obiettivo indicato dal Ministero nel PDM e ribadito nella “Buona scuola”: il miglioramento dell’offerta formativa del singolo Istituto6. Miglioramento da intendersi sia in termini di competenze acquisite dagli studenti nel corso degli studi, sia in termini di recupero deficit, sia in termini di inclusione/pareggiamento/accrescimento del numero di studenti in grado di ottenere risultati superiori agli standard di partenza. Non da ultimo va considerato non a margine il miglioramento delle competenze di docenza da parte degli insegnanti (con l’annesso ‘obbligo’ della formazione introdotto dalla 107)7.

Certamente, se tutto ciò si verificasse anche solo in minima parte, così come in estrema sintesi qui ho delineato, potremmo dire di aver raggiunto una dimensione davvero idilliaca, se non addirittura l’età dell’oro, della scuola italiana.

Tuttavia, io credo che, le condizioni reali oggettive nelle quali versa oggi la scuola italiana, non possano purtroppo essere considerate né soddisfacenti tanto meno felici. Per oggettive intendo proprio causate non da cattive intenzioni attribuibili ai singoli attori (Dirigenti/Docenti/Studenti/Genitori); ma da condizioni contestuali, nelle quali tali attori si trovano a interagire, senza che possano rivendicarne la paternità. Condizioni che al contrario vanno fatte risalire a decisioni governative di lunga data ovvero alla politica scolastica perseguita dall’alto, senza un serio e profondo coinvolgimento della comunità scolastica. Condizioni inemendabili dunque, non modificabili da parte di chi invece la scuola la vive ovvero la subisce quotidianamente.

Ma rimango sul punto delle prove parallele.

Se si guardano bene i documenti citati supra non intravvediamo in essi alcun riferimento né al fattore tempo né al contenuto disciplinare cioè alle cosiddette conoscenze, chiamate nozioni e oggi spregiate da chi ritiene di doversi affrancare a tutti i costi dal vecchio nozionismo dei nostri padri.

Ebbene, io credo che questo mancato riferimento al tempo effettivamente trascorso in aula e ai concreti contenuti del sapere, costituisca il peccato originale da cui sia affetto in modo viscerale il paradigma formativo che si è imposto insieme alla riconfigurazione dell’ordinamento scolastico italiano dal 2000 in poi, fondato sulla già citata autonomia8.

Un paradigma essenzialmente incentrato sulle cosiddette competenze – delle quali non vi è una definizione certa rintracciabile nella letteratura scientifica finora a disposizione9 – le quali in sostanza propongono, invece del sapere, il saper fare.

Un paradigma che nella sua realizzazione globale e pervasiva prescinde incredibilmente dal tempo aula ovvero dal lavoro individuale speso da ciascun insegnante in classe. E cioè prescinde dal lavoro di insegnamento che dovrebbe avvenire, per essere efficace, in un contesto oggettivo non comprimente; un contesto oggettivo non distraente; un contesto oggettivo non limitante; non ingolfato da progetti e progettini; un contesto oggettivo di massima concentrazione fisica e mentale. Di libertà individuale e collettiva realizzata quanto più possibile nel dialogo intersoggettivo.

Tale paradigma prescinde dai contenuti disciplinari, consegnati a latere alle Indicazioni nazionali10, le quali risultano con ogni evidenza estrinseche rispetto al paradigma di riferimento, tant’è che già oggi, almeno in area filosofica, lo stesso Miur ha istituito una Commissione tecnico scientifica di revisione delle Indicazioni proprio per riconfigurarle nel verso delle competenze11.

Tanto per essere chiara, tale paradigma ha violentemente colonizzato il mondo del sapere della cultura e della comunità scolastica – fino a produrre addirittura l’obbligo dell’alternanza scuola/lavoro12 – deprimendone il nucleo vitale, ovvero la ricerca fine a se stessa; un paradigma che ha voluto celebrare su tutto la quantità/misurabilità la forma e l’automatismo della valutazione, a discapito della qualità, del contenuto e soprattutto a danno dell’intersoggettività/collegialità.

Tali prove parallele restituiscono perciò l’esempio di come ciò che conta in termini di risultato formativo non è, per esempio, la conoscenza della Rivoluzione francese come processo complesso connesso con l’Illuminismo e l’età napoleonica, ovvero con la filosofia di Kant o l’Ençiclopedie di Diderot e D’Alembert: conoscenze assai complesse, per apprendere le quali occorre tempo concentrazione sia in aula che a casa, ma soprattutto tempo e concentrazione per restituire da parte sia dell’insegnante che dello studente la complessità di tali conoscenze sia all’orale che allo scritto. Viceversa, tali modalità di verifica, rappresentano un modo di insegnare/apprendere/valutare essenzialmente semplificato, riduttivo, estrinseco, parcellizzato, ridotto in pillole, omologato e omologante.

In più, tali prove, se come si afferma, hanno come obiettivo il miglioramento della didattica futura, esse acquisiscono senso all’inizio del percorso ovvero a metà percorso; certamente, all’ultimo anno, tale senso viene meno, tanto più che l’obiettivo finale, l’esame di stato, richiede come condizione base almeno il completamento del programma disciplinare, per il quale, anche qui, il tempo aula diventa decisivo su tutto il resto.

Occorre perciò resistere con tutte le forze disponibili e in modo capillare laddove il territorio e la comunità scolastica siano reattivi alla deriva nella quale ormai siamo caduti. Io sinceramente credo sia una deriva irreparabile, antropologica oltre che politica. Soprattutto perché il corpo Docente risulta politicamente impreparato: voglio dire politicamente regredito. Sia per quanto concerne la capacità di critica sia per quanto concerne la capacità di lotta. Le ragioni sono strutturali e non voglio qui elencarle tutte, ma solo mettere in luce il fatto che non abbiamo più un corpo Docente, ma un sistema dell’atomistica, ovvero un sistema scolastico nel quale i lavoratori della conoscenza sono legati l’uno al lavoro dell’altro solo ed esclusivamente da norme ministeriali che impongono prassi automatiche impartite nel singolo Istituto da circolari emanate dalla Dirigenza.18

Contro l’automatismo della macchina scolastica occorre rispondere sia con una presa di coscienza ampia e organizzata, solo grazie alla quale ci si afferma come soggetti di diritto, sia con forme di lotta capillari reiterate apparentemente invisibili ma costanti nel tempo. Che scorrano come la sabbia scorre giù velocemente negli ingranaggi delle macchine, per metterle definitivamente fuori uso.

 * Insegnante

4 “Il collegio dei docenti: a) ha potere deliberante i18n materia di funzionamento didattico del circolo o dell’istituto. In particolare cura la programmazione dell’azione educativa anche al fine di adeguare, nell’ambito degli ordinamenti della scuola stabiliti dallo Stato, i programmi di insegnamento alle specifiche esigenze ambientali e di favorire il coordinamento interdisciplinare. Esso esercita tale potere nel rispetto della libertà di insegnamento garantita a ciascun docente […]d) valuta periodicamente l’andamento complessivo dell’azione didattica per verificarne l’efficacia in rapporto agli orientamenti e agli obiettivi programmati, proponendo, ove necessario, opportune misure per il miglioramento dell’attività scolastica […]” [art. 7 comma 2a e comma 2d] http://www.edscuola.it/archivio/norme/decreti/dlvo297_94.html

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2 Commenti


  • codadilupo79

    Sull’importanza della centralità dei contenuti nulla da eccepire, siamo d’accordo, ma il ragionamento che deve essere fatto non dovrebbe partire dal “profilo d’uscita”, ma dal “profilo d’entrata”, ovvero quali prerequisiti linguistici e culturali possiedono gli alunni che si immettono nel percorso liceale? Da quello che posso osservare lavorando nella scuola secondaria (liceo artistico e delle scienze umane) i prerequisiti necessari per un percorso articolato come quello del liceo tradizionale non ci sono, e senza di questi l’analisi di sistemi complessi (siano essi storici, filosofici letterari, matematici e scientifici) viene meno. Di conseguenza la centralità si sposta dalle conoscenze alle competenze, e il passaggio è obbligato, per tornare alle conoscenze bisogna ripartire dalle competenze: per “saper fare” bisogna “sapere”, e i saperi non possono essere di pronto utilizzo in quanto passibili di obsolescenza, ma complessi e articolati. Questa è l’unica forma di resistenza attuabile al momento sul terreno scolastico da parte degli insegnanti. Un lavoro motivazionale che fino a pochi decenni fa non era contemplato per il semplice fatto che la conoscenza dei sistemi complessi era requisito imprescindibile per l’accesso al mondo del lavoro qualificato.


  • Massimo Grieco

    Approvo incondizionatamente. Sono un prof. Di matematica e fisica di Liceo Scientifico e addirittura rilancio.
    Rivendico infatti la preziosissima utilità della diversità.
    Ciascun docente DEVE avere un proprio percorso di insegnamento che dipende dalle proprie caratteristiche e inclinazioni, ma soprattutto da quelle della classe. E ben venga che all’arrivo della maturità lo studente non abbia caratteristiche omologate e allineate.
    Per l’amor di Dio, per i credenti…
    Per amor dell’Uomo, per quelli. Come me che sono soli nell’Universo.

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