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Le donne e la politica

E’ un gesto forte quello della giornalista canadese Megan Williams, semplice e nello stesso tempo eclatante. Un gesto che arriva dopo la rivolta delle donne che nei giorni scorsi ha scosso la Bbc, centocinquanta giornaliste e presentatrici hanno presentato prove scritte e accuse di discriminazione alla commissione parlamentare per i Media, la Cultura e il Digitale, relative a disparità economiche di genere tra i dipendenti. 
Megan dice ad alta voce quello che spesso le donne nei partiti, anche della sinistra, non hanno avuto il coraggio di dire o hanno detto senza essere ascoltate, sottolineando i limiti e le insufficienze di una politica tutta maschile, nei contenuti, nella rappresentanza, nelle pratiche, nella rappresentazione pubblica.

Le donne iscritte ai partiti anche quelli sinistra sono poche e rimangono poche quelle che si interessano di politica costantemente e regolarmente, questo significa varie cose importanti:

  1. Nella percentuale di astensionismo che ormai sfiora il 40%, le donne sono probabilmente in maggioranza netta, un dato che la politica continua ad ignorare e a sottovalutare,
  2. La politica così com’è non piace alle donne, non le attrae, non intercetta i loro bisogni e i loro desideri
  3. I luoghi e i tempi della politica tradizionale non sono per niente accoglienti e sono oggettivamente lontani dalla vita delle persone. Sono spazi che per orari, linguaggi, metodi sono adatti ai “professionisti” della politica, non a chi ha bisogno di conciliarli coi propri impegni di lavoro, coi propri ritmi di vita.

Una riflessione seria sulla scarsa presenza delle donne implica una messa in discussione di categorie culturali e politiche che ci accompagnano da sempre.

Significa chiedersi cos’è la “militanza politica” nel terzo millennio, e come sia possibile organizzarla nell’era del lavoro precario e flessibile, della cancellazione del “tempo libero”, della disponibilità totale delle nostre vite ai meccanismi del neoliberismo.

Una volta i tempi di lavoro e di vita erano nettamente separati, sono cresciuta nel quartiere operaio di Bagnoli, dove i ritmi di vita personali e collettivi erano scanditi dalle sirene della fabbrica, dove alla militanza erano assegnati orari precisi, il pomeriggio, la sera dopo il lavoro; una società caratterizzata dal capofamiglia maschio che assicurava le risorse e dalla donna che si preoccupava prevalentemente della famiglia.

Questo tipo di società, di famiglia, di lavoro non esiste più, nell’attuale frantumazione non esiste più separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita. Si vive, soprattutto i giovani, “perennemente connessi” alla ricerca di una possibilità, di un’occasione, le nostre stesse esistenze diventano merce sui social, producono una ricchezza immensa che non viene in alcun modo ridistribuita.

Per quel che riguarda in particolare le donne, sono decenni che è tramontato il sistema produttivo che aveva al centro il capofamiglia maschio, e con esso è entrato in crisi anche l’intero sistema pensionistico e previdenziale, ma la trasformazione e la femminilizzazione del mondo del lavoro che poteva essere una gigantesca occasione di liberazione, governata dal neoliberismo si è trasformata nell’ennesima enorme sconfitta.

Così la flessibilità è diventata nei fatti precarietà e ricatto economico, la riduzione dell’orario partime malpagato e lavoro povero.

Le garanzie sono state smantellate, le condizioni di lavoro sono peggiorate per tutte e tutti, il tetto di cristallo è divenuto ancora più impenetrabile, le donne sono dentro le fabbriche, nel sistema dei servizi, nell’impresa sociale, dentro le imprese di pulizia, dentro i call center le operaie del terzo millennio, pagate male, ancora meno degli uomini, sfruttate, senza diritti, e maggiormente ricattabili anche perché gravate dall’ulteriore fardello della maternità, dell’assistenza agli anziani, e dal peso del lavoro di cura dentro la famiglia.

Nonostante trasformazioni economiche e sociali di tale portata, si continua a proporre il vecchio modello militanza basato su di un mondo che non esiste più.

La militanza è una faccenda semplice per chi ha tempo libero in abbondanza e un lavoro stabile, difficilissima per tutte e tutti gli altri; per le donne penalizzate nel mondo del lavoro e dalla riduzione progressiva del welfare, diventa “mission impossible”.

Nei fatti, non esiste alcuno sforzo ed alcuna volontà di elaborare un modello di militanza nuovo, più adatto ai nostri tempi, che favorisca la partecipazione ed è francamente difficile credere che si tratti di sola incapacità; è più realistico pensare che i vecchi modelli di militanza e di organizzazione favoriscano l’autoconservazione di un ceto politico che non intende cedere il potere ed allargare gli spazi decisionali.

Lo suggerisce in maniera emblematica il cammino ed il percorso tutto maschile e autoreferenziale della formazione della lista LEU, a cui si riferisce la vicenda di Megan Williams; il 40% di candidature di donne è un fatto puramente formale, nei fatti queste candidature sono molto poco sostenute e valorizzate e comunque quasi sempre funzionali alla riconferma dei “professionisti maschi della politica”.

Nell’ignorare il problema della scarsa presenza attiva femminile, la politica manifesta ancora la volontà di mantenere stretti e impraticabili gli spazi di partecipazione, e allarga la distanza che la separa dal paese reale e dai conflitti sociali.

Il 28 ottobre a Napoli con la “rete nazionale delle donne”, un coordinamento femminista autonomo in cui sono presenti donne che provengono da percorsi differenti, da diversi partiti, da associazioni, comitati, movimenti, abbiamo realizzato un’iniziativa “La città delle donne”, ci siamo rese conto che non solo i nostri bisogni e i nostri desideri, ma anche le nostre proposte, erano del tutto antitetiche al modello di città europea e occidentale che si sta affermando e che nasce dal dominio del privilegio e del potere economico.

Abbiamo capito che per costruire “La città delle donne”, è necessario lavorare obbligatoriamente alla costruzione dell’alternativa radicale agli attuali meccanismi economici e dei bilanci pubblici, che non è possibile farlo senza “la disubbidienza” ai patti di stabilità e che non possiamo ignorare il conflitto sociale che nelle nostre città vive.

Le donne non hanno spazio dentro ipotesi moderate o nella riedizione di vecchi scenari politici, non possono averlo per la logica stessa che governa questi sistemi, che si basa sostanzialmente sulle vecchie forme di partito e che in qualche modo cerca compatibilità e legittimazione proprio nel mondo che dice di voler trasformare.

Un gesto, quello di Megan, che nella sua ed immediatezza rompe un muro di silenzio e di complicità, e soprattutto conferma che in presenza di un ceto politico così impermeabile e sfacciato, la strada della lotta tutta interna ai partiti ed alle organizzazioni di appartenenza, diviene davvero ardua e non paga, non abbastanza.

E’ arrivato per tante di noi il momento di porsi una diversa prospettiva.

Forse è il caso che anche le donne che hanno scelto di essere “militanti attive” in partiti e movimenti di sinistra tornino ad utilizzare, quando lo ritengono opportuno, metodi e strategie caratteristici dei movimenti femministi, recuperando alcuni aspetti

del “separatismo”, che in passato aiutò tante donne a superare la subalternità.

Sono metodi che riconfermano loro attualità, la loro efficacia ; basti pensare alla lotta vincente, dell’YPJ (iepeje) l’esercito di liberazione delle donne del Kurdistan e alla loro avanzatissima esperienza.

L’esercito delle combattenti curde, nata come struttura di autodifesa contro la violenza maschile, si è trasformata in esercito di liberazione, mantenendo la sua struttura tutta femminile, diventando decisivo nella lotta di liberazione della regione dall’ISIS e poi imponendo nelle esperienze di autogoverno che seguono immediatamente, un modello di democrazia paritaria e partecipativa estremamente avanzato.

Quell’esperienza, è stata quindi possibile per la forza e l’autorevolezza conquistata da sole, in un percorso separato e indipendente che peraltro le compagne hanno scelto di non smantellare, per mantenere libera la loro prospettiva e conquistare sempre più spazi di agibilità e potere nel loro stesso partito e nelle istituzioni.

Modelli organizzativi, strategie, insegnano le donne curde vanno usati in maniera creativa, tenendo in piedi la forza e la coesione della struttura autogestita tutta femminile si può poi spenderne la forza all’interno dei luoghi misti per affermare valori, conquistare rappresentanza, cambiare pratiche e modalità anche di stile e di linguaggio.

La nostra autonomia è preziosa, è indispensabile, bisogna continuare nella costruzione di un luogo in cui ritrovarci, riconoscerci e organizzarci e renderlo sempre più affollato di donne, più radicato nei territori, più presente nelle città.

Un soggetto politico autonomo capace di proposte ed azioni concrete, come il 28 ottobre a Napoli nella “Città delle donne”, che non abbia paura del conflitto sociale ed anzi sappia crescere dentro di esso, come nelle proteste delle donne americane dopo l’elezione di Trump, di quelle francesi per il lavoro o polacche in difesa del diritto all’aborto, come nelle lotte delle donne contro il biocidio, contro lo smantellamento di ospedali e presidi sanitari, e in tantissime vertenze lavorative locali.

Non è più il tempo di lamentarci di partiti che non sono per noi accoglienti, neanche quello di continuare a chiedere un cambiamento che non arriva, è il momento di riorganizzarci di portare avanti le nostre campagne le nostre iniziative, soprattutto essere protagoniste, col nostro pensiero e la nostra azione, in un’alleanza paritaria con gli altri attori che vorranno esserci, della costruzione di un nuovo progetto alternativo a questo sistema dominante neoliberista e neopatriarcale, un progetto che sia davvero democratico, radicale e coerente.

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