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Giovanni Pesce, maestro di Resistenza. Per l’oggi

In questo giorni di undici anni fa ero triste perché veniva a mancare una della figure politiche di riferimento della mia formazione, il partigiano Giovanni Pesce. Il suo libro “Senza Tregua” è un capolavoro di storia e politica che ogni militante dovrebbe leggere e rileggere.
Più che un racconto della Resistenza, è un manuale di resistenza. Ti aiuta a capire come metter su un gruppo d’azione, qual è il metodo di lavoro, come ci si organizza, quali legami umani devono crearsi per sopportare il carico del lavoro politico. Racconta di figure esemplari, come quella del 18enne Dante di Nanni, che ti fanno allo stesso tempo vergognare ed essere orgoglioso…
Ma soprattutto quello di Pesce è un libro tutto animato dal desiderio di azione. Non è un caso che tanto piacque ai giovani autonomi degli anni ’70, pur venendo da un membro del PCI. Perché Giovanni Pesce per tutto il libro non si incazza solo con i fascisti, ma anche con gli antifascisti e persino con i comunisti attendisti o chiacchieroni.

E’ bellissima la scena della riunione ad Acqui, cittadina dove Pesce arriva durante l’occupazione tedesca per mettere su una cellula clandestina. Gli antifascisti affluiscono, si presentano con nome e cognome, parlano del più e del meno, chiedono lo stato di salute delle loro signore… Come fossero in un salotto. Non si rendono conto che il tempo è poco, che il rischio è grande, che bisogna avere un atteggiamento serio e “militare”, perché il nemico è organizzato e non scherza. Fanno congetture sulla fase, chiacchierano, si lasciano con la generica idea di scrivere un testo da far circolare… Ovviamente non mancano gli ultrasinistri, che giustificano la loro inazione con il “purismo”: bisogna prima dire questo, bisogna prima discutere di quello etc.

Pesce, che ha combattuto in Spagna e ha già patito carcere ed esilio, è sconvolto, guarda questi qui e gli paiono pazzi. Allora interviene in maniera irruenta: li rimprovera, delinea un programma d’azione concreto. E loro che fanno? Lo guardano come se fosse lui il pazzo, e si riservano di chiedere al PCI che la prossima volta mandi un membro più tranquillo!

Ecco, quante volte ho assistito a riunioni come quelle. Gli arrivi in ritardo, il clima da dopolavoro, lo sfoggio dei singoli in pippotti che non sono né vera analisi (ammesso che quelle riunioni siano la sede) né proposte concrete e fattibili. Quante volte mi sono incazzato per l’assurda sensazione che non solo si stesse abusando del mio tempo (che non è prezioso, ma è tutto quello che ho), ma soprattutto della pazienza delle persone che tutto sommato ci sperano ancora…

Ecco, Pesce mi fece capire da piccolo che la prima selezione che andrebbe fatta in un movimento non è, come si crede, fra “rivoluzionari” e “riformisti”, ma fra chi gli “brucia il mazzo” e chi no. Perché ci sono autoproclamatisi rivoluzionari che in fondo si sono accomodati nella realtà, e persone con rivendicazioni apparentemente riformiste, ingenue, ma che mai si troveranno bene in questo schifo.

Così dovevano essere quei ragazzi che, lasciata la riunione di Acqui, Pesce coinvolse nell’apertura di una cellula clandestina, convinto che è meglio dare l’esempio che mettersi a convincere i sordi… Gente che parlava della salvezza dell’Italia, di voglia di libertà, di lavoro degno – poca roba, persino inganni, al palato fine di tanti “rivoluzionari” – ma che per queste cose semplici e buone, comprensibili a tutti, erano disposte a dare tutto quello che avevano, la vita.

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