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Sanzioni all’Iran, Italia esclusa. Qualche perché

A livello geopolitico quasi nulla avviene per caso, al contrario di quel che avviene nell’economia, sempre “sorprendente”, soprattutto quando scoppia una crisi.

Così in molti si sono stupiti per la decisione di Donald Trump – prima – di aprire una guerra dei dazi con obiettivo dichiarato la Cina; e subito dopo per il ripristino delle sanzioni contro l’Iran (sia “primarie”, nei confronti di quel paese, sia “secondarie”, verso paesi e aziende che continuano a commerciare con Tehran.

Sorpresa delle sorprese, ci sono otto paesi esentati – temporaneamente, per sei mesi – dalle sanzioni secondarie, tra cui la Cina, principale importatore del greggio iraniano (ovviamente prima risorsa per l’export di quel paese).

Sorpresissima, ma fino ad un certo punto, l’esenzione di due soli paesi europei: Italia e Grecia. Un primo abbozzo di analisi sulle ragioni di questa differenziazione lo avevamo proposto quache giorno fa, ma ora il sagace Guido Salerno Aletta – che scrive su Milano Finanza e altre testate economiche specialistiche – ce ne dà piena e meglio articolata conferma.

Si può naturalmente non condividere questa o quella affermazione (ad esempio, è noto che Tehran non finanzia alcuna formazione terroristica, al contrario dell’Arabia Saudita e degli emirati del Golfo), ma sul piano economico e geopolitico queste informazioni sono preziose.

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Tic, tac, tic, tac: inesorabile, ma non per l’Italia ed altri sette Paesi, l’orologio che scandisce le pressioni americane sull’Iran ha segnato un nuovo aggravamento. Il 4 novembre scorso, a 180 giorni dal ritiro unilaterale dall’Accordo raggiunto con l’Iran sull’arricchimento di uranio dal Gruppo dei 5+1 (JCPOA – Joint Comprehensive Plan of Action), ponendo fine al quarantennale regime di embargo petrolifero, gli Usa hanno reintrodotto le sanzioni sull’export di petrolio che erano state sospese o rimosse a seguito dell’Accordo.

Sempre a partire dal 4 novembre, gli Usa applicano anche le cosiddette sanzioni secondarie, quelle che consentono di penalizzare i soggetti non americani che continuino ad intrattenere rapporti con Teheran per esportazioni di petrolio o che effettuino operazioni con la Banca centrale iraniana. Scatta così l’inserimento in una sorta di lista nera (Specially Designated Nationals and Blocked Persons List), formata dal Dipartimento del Tesoro, dei soggetti che con il loro comportamento sostengono direttamente o indirettamente un Paese a cui gli Usa abbiano imposto sanzioni, con l’irrogazione di multe o l’inibizione ad operare sul mercato americano. O di qua, o di là: è un meccanismo che non lascia scampo.

Il precedente round di sanzioni contro l’Iran ha riguardato il campo finanziario, precludendo indirettamente le attività commerciali connesse: acquisto di dollari americani da parte del governo di Teheran, acquisto e vendita di riyal iraniani, mantenimento di conti denominati in riyal al di fuori del territorio iraniano, sottoscrizione o facilitazione dell’emissione di debito sovrano iraniano, commercio in oro o metalli preziosi. Dal punto di vista economico, era stata vietata la vendita diretta o indiretta di metalli grezzi (alluminio, acciaio, carbone), loro semilavorati, e software per l’integrazione dei processi industriali. E’ stata colpita così l’industria automobilistica iraniana, con il ritiro della Peugeot che dal marzo 2016 aveva ripreso nel Paese dopo la rimozione delle sanzioni.

La estensione delle sanzioni all’export petrolifero comporta per l’Iran un particolare sacrificio, visto che pesa per l’80% del totale, con entrate pari ad oltre il 5,5% del pil.

Ci sono due aspetti da considerare. Il quadro strategico e geopolitico costruito dalla Amministrazione Trump consente di comprendere le ragioni dell’inserimento dell’Italia nell’elenco dei Paesi da esonerare, temporaneamente per sei mesi, dalla applicazione delle sanzioni secondarie, insieme a Cina e Taiwan, Giappone, Corea del Sud, India, Turchia, e Grecia.

Ci sono poi le reazioni dell’Unione europea, con la Commissione che il 2 agosto scorso ha emanato un “Regolamento che individua le contromisure a protezione dagli effetti extraterritoriali derivanti dall’applicazione di una normativa adottata da un paese terzo”, che si applica anch’esso a partire dal 4 novembre. E’ stato aggiornato, con riferimento alla decisione americana sull’Iran, il Regolamento del 1996 che fu varato per contrastare gli effetti sulle imprese europee delle sanzioni allora disposte dagli Usa contro Libia, Cuba e Corea del Nord. Vicenda che si concluse, ma solo nel 1998, con un chiarimento bilaterale.

Non c’è niente di improvvisato nella strategia con cui il Presidente americano Trump mette sotto pressione l’Iran: sin dalla campagna elettorale aveva dichiarato che l’Accordo raggiunto con l’Iran dal suo predecessore Obama era stato un errore colossale. Così, nell’agosto del 2017 era stato varato un aggiornamento della normativa volta a contrastare gli avversari dell’America attraverso le sanzioni, (CAATSA – Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act), prendendo subito di mira Russia, Nord Corea ed Iran: era solo l’inizio.

D’altra parte, anche il Segretario di Stato Mike Pompeo ha sempre sostenuto la necessità di tornare ad isolare il regime iraniano: la volontà della Amministrazione Obama di raggiungere un accordo ad ogni costo ha determinato un assetto di oggettiva impunità, garantendo montagne di soldi che sono stati usati dal suo leader supremo per sponsorizzare ogni tipo di terrorismo in ogni angolo del Medio Oriente, ed al sistema di potere nato dalla rivoluzione religiosa di continuare ad imporsi all’interno.

Dall’elenco dei sette Paesi esonerati dalle sanzioni secondarie sul petrolio iraniano si chiariscono bene i diversi tavoli su cui si sta giocando la strategia americana. Innanzitutto, c’è la esclusione della Cina: a prima vista sembra un controsenso, visto che gli Usa non perdono occasione per elevare il livello di scontro con Pechino. La verità è che la mancata esclusione della Cina sarebbe stata una iniziativa dirompente, che avrebbe solo inquinato la partita in corso. Taiwan, è un tutt’uno. Ci sono Giappone e Corea, tradizionali alleati degli Usa in quello scacchiere: sarebbe stato controproducente penalizzarli sul fronte energetico, proprio nel momento in cui l’avvio a soluzione del problema nucleare nord-coreano li sta già inducendo a rafforzare i rapporti con la Cina. Vale altrettanto per l’India.

Turchia e Grecia fanno pari e patta nello scacchiere mediorientale. Le relazioni commerciali fra Turchia ed Iran sono sempre più intense, mentre sempre più ruvide sono quelle politiche tra Washington ed Ankara. C’è una partita aperta, che riguarda la Siria e gli schieramenti tra sunniti per isolare l’Iran, un groviglio inestricabile di rapporti. Evitare di infierire ancora sulla Turchia, che di recente è stata fatta oggetto di un raddoppio delle sanzioni statunitensi sull’export di acciaio, significa aprire una finestra di dialogo. La Grecia è stata aggiunta solo per evitarle uno sgarbo, visti i continui dissidi tra Atene ed Istanbul.

Francia e Germania non potevano essere esonerate: se il Presidente francese Emmanuel Macron si è speso troppe volte e pubblicamente a favore del mantenimento dell’Accordo con Teheran; fare un favore anche indiretto al governo tedesco è l’ultima delle idee che possono passare per la testa di Donald Trump.

L’Italia è una pedina importante nella strategia americana, sia per lo scacchiere europeo che nel Mediterraneo: il governo Conte è in aperto conflitto con Bruxelles sul versante delle politiche di bilancio, e sta cercando di risolvere la crisi libica riducendo il peso della Francia. L’idea di un’area nord-occidentale africana guidata da Parigi, che parta dal golfo di Guinea per arrivare al Mediterraneo centrale, e che andrebbe a bilanciare l’influenza tedesca sui Paesi balcanici e nell’est europeo, non appare delle migliori, visto che fa tutt’uno con il continuo sostegno dato da Parigi alla creazione di un esercito europeo. La prospettiva, per quanto lontana nel tempo, di uno sganciamento dalla Nato guidato da Francia e Germania è indigeribile sia per Washington che per Londra: per questo l’Italia va sostenuta, sia nei confronti di Bruxelles e del sotteso rigorismo teutonico, sia nei confronti delle pressioni geopolitiche francesi.

La reazione di Bruxelles è una pistola caricata a salve: il rimborso delle sanzioni americane e la liquidazione dei danni subiti perdendo l’accesso al mercato statunitense rappresentano un rimedio a posteriori, non un atto politico, per quanto il Consiglio europeo dell’8 agosto abbia riaffermato la validità dell’Accordo con l’Iran e la volontà di proseguire nella collaborazione instaurata. Dovendo scegliere tra i due mercati, Iran ed Usa, nessuna impresa avrà dubbi.

L’Italia è ancora una volta una pedina indispensabile negli equilibri globali: c’è chi vuole tenerla sotto scacco economicamente e finanziariamente usando la mannaia del debito pubblico eccessivo; e chi, per realizzare i propri obiettivi, cerca di tutelarne l’indipendenza chiedendole contropartite e fedeltà strategica. All’Italia spetterebbe promuovere il processo di apertura della economia iraniana agli investimenti esteri, da una parte riducendo la presa delle imprese statali e delle fondazioni religiose, e dall’altra bilanciando la pressione esercitata dalla Cina attraverso la Via della Seta.

Politica, finanza ed economia si intrecciano ancora una volta. In queste complesse dinamiche internazionali sta la nostra Storia.

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