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Silvia, un’altra donna da “mettere a posto”?

Ho letto l’editoriale (se così lo si può definire) osceno che Gramellini sul Corriere ha scritto sulla vicenda di Silvia, la giovanissima volontaria rapita in Kenia.

Sono andata sul profilo della ragazza, in alto, la prima cosa che vedi, è la frase “Piuttosto che essere normale, hai scelto di essere felice.”

Mi ha colpito, un po’ – lo confesso – perchè ricalca quello che migliaia di volte, un po’ per scherzo, un po’ per provocazione, coi miei compagni abbiamo detto mentre facevamo le cose più assurde, ma anche le più banali e che però non fa più nessuno, quel “se la normalità è questo, allora je so’ pazzo” che ci siamo scelti come firma.

Ci sono due cose che ritrovo nella storia di Silvia, ma che sono tornate sempre più spesso negli ultimi mesi:

1. L‘esempio da demolire. Premessa: la scelta che ha fatto lei non è quella che ho fatto io. Reputo la mia maniera di contribuire al benessere collettivo (quel poco che faccio) su binari ben diversi, per provenienza culturale, storica, per visione della realtà, da quella fatta da lei. Militare in una realtà autorganizzata, comunista, non è far parte di un’ONG, non è dedicarsi alla cooperazione internazionale.

Eppure, quando due estati fa è iniziata la pubblica crociata delle istituzioni contro i “taxi del mare” la mia comunità – nonostante le differenze e divergenze con quel mondo – non ha esitato a schierarsi. Perché ci è parso lampante che quello era un attacco molto più complessivo e che non si attestava sul livello politico della questione, andava più giù, su un piano etico, di comportamento.

Le inchieste – che non portano a nulla però screditano, gettano ombre, fanno perdere tempo e soldi, rallentano in definitiva – isolavano quei volontari come “corpi estranei” alla società, spezzavano legami pregressi, rendevano di fatto impossibile crearne di nuovi. Chi ha militato mai in un contesto “antagonista” lo sa bene, perché ci passa ciclicamente. Il messaggio, più che ai diretti interessati, è rivolto a chi sta fuori: fai bene a restarne fuori, fai bene a restare a casa, fai bene a far vincere la paura. è passato, e questo in generale, un sistema valoriale per cui niente è più importante di te stesso, della tua libertà (fosse anche la libertà di non far nulla e non essere toccato da nulla in un mondo sempre più violento, sempre più osceno: è già qualcosa!).

Dedicarsi ad altro da sé (dal proprio progetto personale, a prescindere da quale sia) non è un’opzione di serie b, per gli sfigati: semplicemente, non è un’opzione. sei libero di trascinarti, questo quello che ti è dato. Cerca riparo per le cose che non ti piacciono solo e soltanto dentro di te. E se non ci riesci, perché nessuno ci riesce, colpevolizzati, diventa depresso, sfoggia il disprezzo e il cinismo come farebbe un bulletto qualsiasi e poi torna a sentirti impotente. E soprattutto fregiati di essere normale, come gli altri, come tutti.

Qualche sera fa se ne parlava in gruppo, un compagno aveva ragione a dire ai più giovani che non bisogna avere paura a farsi vedere diversi, a vivere diversamente, a mostrare il proprio non essere riducibili, perché nessuno si unisce alle tue fila se non si palesa un esempio coerente, se non intravede la disponibilità di andare fino in fondo. aveva ragione.

2. Le donne vanno rimesse “a posto”, sempre. Guardate – e qui indignazione di tutti i piselli all over the world messa in conto – che se Silvia fosse stata un uomo non avremmo letto le stesse reazioni. Silvia non è una rivoluzionaria, io non so nemmeno che pensa delle cose del mondo, non so se è d’accordo con la caduta tendenziale del saggio di profitto, non so se apprezza la guerriglia, non me ne frega niente.

Ogni volta che una donna esce dal seminato, e sempre nella storia è stato così, e acquisisce protagonismo, ci troviamo davanti a due tipi di reazione. E’ pazza, sta fuori con la testa, oppure è una che non ha concretezza, è un’idealista, una che non ragiona (e lo squallido Gramellini è tra i secondi). è l’elemento dell’azione consapevole, della razionalità, e quindi della possibilità di agire pianificando e calibrando, che viene messo in dubbio. Una donna non ha potere su se stessa, è in balia di altro, sia il maschio o l’elemento irrazionale poco conta.

E quale che sia il giudizio morale (è pazza o vive fuori dal mondo) l’esito è sempre il tentativo di rimetterla a posto, al suo posto. Solo così riusciamo a capire il “se l’è cercata”, a capire veramente il perché in milioni le augurano violenze atroci. D’altronde il corpo delle donne è sempre stato terreno di scontro politico, la punizione fisica come modalità per ristabilire i ruoli, plateale. Non voglio scomodare le partigiane, non voglio scomodare quello che viene fatto alle prigioniere di guerra, non 1.000 anni fa, ma ancora oggi.

Guardate le tre ragazzine dei collettivi studenteschi che Salvini ha sbattuto in prima pagina: “le stuprassero i loro amici neri!”. Così forse tornano normali, tornano a posto. E Salvini, o chi per lui, questo lo sapeva benissimo.
Se queste cose che mi frullano il testa, sicuramente parziali e imprecise, cogliessero anche solo un poco nel segno, è evidente che il lavoro che ci aspetta richiede tanto tempo, tanta pazienza e tanto fegato.

Trasformare le relazioni sociali, costruire un’etica nostra altra dalla putrescenza in cui ci siamo infognati, non è prendersi un governo, posto che nemmeno quello siamo in grado di fare (non l’Opg, ma tutti i compagni).

Ma è assolutamente imprescindibile.

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