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Attenzione e solidarietà a chi lotta sull’altra sponda del Mediterraneo

Dal 22 febbraio in Algeria, il popolo di quel paese, è in mobilitazione permanente e la sua azione ha avuto come principale risultato le dimissioni dell’ottuagenario presidente Bouteflika – che ha rinunciato a presentarsi per il quinto mandato – e l’uscita di scena di parti dell’establishment che avevano governato l’Algeria per un ventennio.

Una cosa che sembrava “impensabile” anche ai più generosi oppositori del regime.

L’Hirak – questo il nome del movimento algerino – ha la sua base sociale nei giovani, in un movimento operaio che ha ritrovato il protagonismo, nelle donne ed in tanti pezzi della società civile, così come negli strati più umili della popolazione.

Un movimento che avuto come inno una famosa canzone di critica sociale dei supporters di una squadra calcistica, organici alle manifestazioni!

La sinistra algerina, ancora debole, comunque cerca di strutturarsi e di interpretare il desiderio di cambiamento della popolazione prefigurando uno sbocco alla crisi che faccia voltare pagina al paese in senso progressista. L’esercito che fino ad ora è stato il vero attore politico – insieme al popolo – cerca di dare una gestione della transizione che gli permetta di regolare i conti con i suoi vecchi rivali e che reprima le istanze più avanzate di cambiamento formulate dalla sinistra.

Attualmente con una mobilitazione popolare che non accenna ad affievolirsi si è prodotta una impasse a meno di due mesi dalle elezioni presidenziali previste all’inizio di luglio, per le quali nessun candidato minimamente conosciuto si è ancora presentato.

La piazza rifiuta ogni possibilità di compromesso con il “vecchio regime” e chiede la fine del sistema, quasi con le stesse parole che caratterizzarono il movimento argentino nel dicembre del 2001: “che se ne vadano tutti e che non rimanga nessuno”.

La popolazione algerina chiede la realizzazione di una sovranità popolare – ampiamente prevista dalla costituzione scaturita dai sei anni di lotta di liberazione – il controllo delle proprie risorse pubbliche e una giustizia sociale reale che permetta ai giovani – ma non solo – di non avere come unico desiderio il lasciare il proprio paese, nella “fuga di cervelli” e nell’immigrazione clandestina via mare.

Questa nuova lotta di indipendenza non riguarda solo gli assetti di potere consolidati che gli insorti algerini vogliono cambiare, ma le ingerenze neo-coloniali (francesi in primis) per poter decidere del proprio futuro.

A sudest, in Sudan, la lotta iniziata lo scorso dicembre è riuscita a defenestrare un dittatore sanguinario giunto al potere con un colpo di stato nel 1989, alleato con la parte più retriva dell’Islam politico.

La popolazione ha affrontato il piombo della reazione che ha mietuto almeno 90 vittime, sfidato lo stato d’emergenza e le ingerenze degli attori politici regionali e le condanne di parte del “clero” mussulmano.

Questo paese ha una posizione strategica nell’area, e parte della sua popolazione fornisce “la carne da cannone” per la coalizione a guida saudita responsabile del conflitto yemenita, una guerra che ha prodotto una catastrofe umanitaria senza uguali.

Questo conflitto vede pesantemente implicate l’Italia e la Francia per la vendita di armi alla coalizione.

Il Sudan è un paese con una storia di lotta radicata contro il colonialismo anglosassone ed i colpi militari successivi all’indipendenza, in cui il movimento sindacale e le donne hanno svolto e svolgono un ruolo chiave e il Partito Comunista Sudanese è una forza politica significativa che ha pagato a caro prezzo il suo impegno contro i vari regimi, tra cui quello di Bashir.

Il despota aveva definito “l’armata fantasma” l’opposizione che lo sfidava a febbraio, ma ora è in carcere e rischia di pagare per la repressione violenta della “tempesta di sabbia”, nome con cui si è auto-definita la protesta.

Le mobilitazioni, dopo il “colpo di stato” attuato dall’esercito l’11 aprile, conseguente al picco delle mobilitazioni che hanno accerchiato la capitale, non sono cessate ed anzi sono a una svolta epocale, visti i tentativi di rimuovere sit-in e blocchi da parte di fazioni dell’esercito, con esiti talvolta sanguinosi.

Se l’autorità militare transitoria non cederà il proprio potere ad un organismo civile, l’opposizione unitaria che ha guidato la protesta da dicembre ad oggi proclamerà lo sciopero generale e forme di disobbedienza civile di massa, intensificando la protesta che rigurada ogni parte del paese, in particolare le parti più periferiche e bistrattate del vecchio regime.

Sia l’Algeria che il Sudan affrontano un delicatissimo frangente politico, pieno di incognite, e l’unico antidoto all’instaurarsi della contro-rivoluzione rimane il proseguimento delle mobilitazioni e la chiarezza degli obiettivi, con una volontà granitica di cambiare radicalmente pagina senza cercare “nuovi padrini” occidentali e senza farsi incantare dalle sirene dell’Islam politico più conservatore che indossa vesti nuove ma ha lo stesso carattere di oppressione nei confronti delle “minoranze religiose” e delle donne.

Ma anche nell’Africa francofona, nelle ex colonie francesi, cresce la collera popolare. In Ciad pochi giorni fa, centinaia di giovani sono scesi in piazza contro la morte di uno di loro in un commissariato di polizia. In Mali la gente si è rivoltata contro la asfissiante presenza militare francese che però non li protegge dagli attentati dei gruppi jihadisti.

Infine non possiamo dimenticare la sistematica destabilizzazione della Libia attraverso il sostegno occidentale al signore della guerra Haftar, in funzione di una nuova spartizione coloniale delle enormi risorse di quel paese e del controllo coercitivo dei flussi migratori verso l’Europa mediterranea.

Potere al Popolo non può che salutare il coraggio con cui i nostri fratelli e sorelle in Africa stanno combattendo questa dura lotta e che ci sta dando una lezione politica di civiltà e che stanno dando al termine “rottura” una nuova valenza, ponendo il concetto di rivoluzione di nuovo al centro dell’agenda politica non come mero desiderio, ma come possibilità concreta.

Sta a noi cogliere il senso profondo del risveglio anticolonialista dei dannati della terra che sono i nostri naturali alleati, e la necessità di un nuovo internazionalismo e delle sue sfide.

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