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La riva più pericolosa

Esso, invece, ha già prodotto effetti negativi e di retroguardia ormai chiari a tutti quelli che non hanno riserve nel riconoscere il livello di debolezza delle contemporanee forze comuniste e anticapitaliste come frutto (anche) degli errori di una parte non trascurabile della cultura politica degli anni Settanta. Questa “riva”, tra le due (l’altra è quella espressa dalla posizione di Dal Lago), dunque, non solo è “accattivante”, ma proprio per questo è anche la più pericolosa, perché più facilmente ascoltata da chi si ritiene su posizioni antagoniste.

Per cominciare: la premessa formulata da Negri/Revel – cioè lo stupore sulla presunta negazione in Italia della relazione tra le “rivolte urbane” e un imprecisato non-luogo (metafisico) della nuova “grammatica geopolitica” dell’ovunque con la crisi economica – sottende implicitamente un giudizio non sufficientemente argomentato. Subito dopo, così, non si prende neanche in considerazione il tema leniniano di come “infondere la coscienza” all’interno di un movimento, ma si recita (a memoria, visto l’autore) il rituale retorico del rifiuto di una prassi d’organizzazione, a prescindere se all’interno o all’esterno del movimento stesso.

Con la stessa noncuranza, poi, la definizione di “forme insurrezionali” sorvola con estrema (ma dolosa) leggerezza sulla distinzione marxiana tra insurrezione e rivoluzione. «Maledetto sia giugno!», scriveva Marx riprendendo il “Neue Rheinische Zeitung” del 29 giugno 1848. Sì, – spiegava – perché il «proletariato parigino era stato costretto all’insurrezione di giugno dalla borghesia. In ciò era già contenuta la sua condanna. Né un consapevole bisogno immediato lo spingeva a combattere per rovesciare con la violenza la borghesia; né esso era pari a questo compito».

“Costretto”, quindi, in conseguenza della lacerazione del velo che avvolgeva la Repubblica borghese di febbraio portando tragicamente con sé, però, il fardello di un atto necessario quanto destinato al fallimento: mancanza di consapevolezza e di organizzazione lo rendevano, infatti, inadeguato al compito. Tropo presto e troppo debole, insomma. La necessità di quell’atto, primo “cominciamento rivoluzionario” del proletariato, è oggi però superata dalle forme successive dell’organizzazione di cui esso stesso si è storicamente dotato. Ancora: il concetto di proletariato è costruito, da Marx, teoreticamente; è cioè ben altra cosa la sua “composizione di classe” rispetto a una rilevazione statistica o di sociologia empirica.

Appare per questo motivo alquanto pretestuoso definirlo “nuovo” perché composto, oggi, da precari e disoccupati; come se, inoltre, questi non esistessero già allora accanto agli operai e al movimento operaio (ma anche questa è una precisa strategia argomentativa della coppia che persegue un altrettanto preciso obiettivo), come se “l’esercito salariale di riserva” o la “disoccupazione latente” fossero un fenomeno prima sconosciuto.

Poco dopo, straniamento e chiarimento: l’apparente radicalità sociale che non fa sconti al politico, recupera poi tutte le categorie del politico parlando di democrazie e dittature nelle lotte dei “paesi del sud-mediterraneo”, evidenziando concetti, in questo modo, pienamente liberali e, dunque, permeabili e subalterni all’ideologia dominante. Quando, inoltre, si accenna al ruolo della finanza nella crisi che investe le società, si omette, definendolo “regime finanziario” (cioè che regna, che governa) che la finanziarizzazione dell’economia è, per il modo di produzione capitalistico, un primo e provvisorio strumento di occultamento della crisi di sistema. Allo stesso tempo si confonde l’attuale proletarizzazione dei ceti medi con l’esclusione: la prima, infatti, tende comunque a far permanere la condizione di consumatori o di potenziale esercito di riserva, la seconda, invece, costituisce una vera e propria teratologia, un’abnorme mostruosità per il sistema.

L’ossessione foucaultiana della coppia è solo rinviata di qualche capoverso. È nel giudizio con cui qualificano come “radicalmente diverso” questo movimento che si tradisce la matrice per nulla oggettiva dell’argomentazione messa in campo: il “rifiuto” del movimento di “pagare le conseguenze dell’economia e della crisi”. Ciò che risalta subito è, in primo luogo, l’assenza di aggettivazione (che è utilizzata solo occasionalmente): non economia capitalista o crisi capitalistica ma, quasi spiritualisticamente, anelito a un modello ascetico di rifiuto dei beni (il francescanesimo era in fondo l’ideale di “militanza” con cui si chiudeva l’ormai desueto testo Impero). Circostanza questa smentita, tra l’altro, dalla corsa all’accaparramento dei beni, che tutti hanno potuto vedere, come cifra dei fatti londinesi.

Inoltre: il “rifiuto” diviene atto cosciente, e non pura reazione, quando la consapevolezza materialistica dei processi in atto e l’organizzazione di classe su cui si fonda è in grado di elaborare una visione del mondo, un programma, un progetto che dà corpo, sostanza, durata e finalità al “rifiuto” di tutto il modo di produzione capitalistico.

Adesso, prescindendo in questa sede per ovvie ragioni dall’analisi sulle interazioni possibili tra l’opera di Foucault e la teoria marxista, riflettiamo sulle conseguenze che ne derivano dall’uso, esplicitato dai due, della categoria di biopolitica per le conclusioni cui si vuole giungere. Anatomia e corpi politici o passaggio dal soggetto all’assoggettamento non legittimano l’interpretazione secondo cui l’uno diviso in due smaschera l’apparente compattezza del capitalismo e determina un’althusseriana rottura. È questa, infatti, la nozione di rottura che i due evocano nel testo: non nei confronti delle compatibilità col sistema ma, sulla scia dell’epistemologia di Bachelard ripresa da Althusser, “salto di paradigma” che renderebbe questo movimento incommensurabile rispetto a tutti quelli che l’hanno preceduto.

Ma torniamo all’uno diviso in due. Il neoplatonico concetto di Uno che si divide nella molteplicità lasciava, infatti, soggiacere un’unica appartenenza eliminando alla radice ogni effettiva rottura. La nozione di moltitudine che ci attende in agguato è, infatti, storicamente di molto antecedente a quella di proletariato inteso nel senso di quella classe generale cui Marx ha dato determinate caratteristiche. Eppure, le dinamiche dei movimenti di massa, per alcuni, sembra abbiano portato, oggi, a superare il concetto di classe, di proletariato, per approdare così – di nuovo, ma in un movimento di ritorno al passato remoto – alla moltitudine.

Il termine moltitudine ha in Spinoza il suo padre illustre. In Spinoza la moltitudine è, però, una vera e propria pluralità che persiste positivamente in tutta una serie di azioni e affetti senza ridursi mai a un Uno ed è perciò considerata l’architrave delle libertà civili. Chi ancora oggi ritiene opportuno recuperare il concetto di moltitudine dimentica che nella cosiddetta società postfordista i molti andrebbero pensati come individualizzazioni di un universale già in atto e quindi forse immodificabile. Perché, allora, lottare per un’effettiva alternativa se tutto è già presente? O, forse, anche il comunismo è già in atto?

Il cuore della modernità – e precisamente l’anomalia olandese del 1600 – è il tempo specifico della moltitudine teorizzata da Spinoza. È quello dei conflitti in Europa tra il ‘500 e il ‘600 e dei loro riflessi nella storia del pensiero: le lotte di Roma e di Firenze per Machiavelli, quelle contro l’assolutismo per Spinoza. Spiazzare quest’opposizione, tra uno e molti, in apparenza astorica, e spostarla dal piano puramente metafisico (del linguaggio teologico e neoplatonico) a quello mondano-politico, significava costruire un’immagine dell’identità individuale che mettesse al centro le relazioni e rendesse possibili modi nuovi di pensare la politica.

Ancora: l’esigenza, che non era sfuggita a Spinoza e alla quale, anzi, egli riuscì a dare voce come nessun altro, era quella di una definizione filosofico-scientifica di Dio, tale da mettere fine alle guerre di religione che avevano insanguinato il continente, definendo una forma di stato democratico ma assoluto, svincolato cioè dai condizionamenti delle parti.

Ben altra cosa, invece, la moltitudine (per così dire) in conflitto con lo stato borghese descritta da Marx ed Engels sempre a proposito delle lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850: «Sotto Luigi Filippo non regnava la borghesia francese, ma una frazione di essa, i banchieri, i re della Borsa, i re delle ferrovie, i proprietari delle miniere di carbone e di ferro e delle foreste, e una parte della proprietà fondiaria venuta con essi a un accordo: la cosiddetta aristocrazia finanziaria». Ecco perché, dopo il fallimento della prima fase del ’48 francese, quella di febbraio, «Agli operai non rimase altra alternativa, o morir di fame o scendere in campo. Essi risposero il 22 giugno con la terribile insurrezione in cui venne combattuta la prima grande battaglia tra le due classi in cui è divisa la società moderna. Fu una lotta per la conservazione o per la distruzione dell’ordine borghese. Il velo che avvolgeva la repubblica fu lacerato».

La storica funzione progressiva della borghesia si era dunque – almeno in Francia – esaurita, essa cedeva il testimone al proletariato parigino. Lo Stato si rivelava sempre più concreto dal punto di vista materialistico (retto da una frazione) e assomigliava sempre meno all’Uno; si rivelava incapace di reggere la contraddizione di un assoluto solo nominale o ideologico e, nel ’48 parigino, affronta «la prima grande battaglia tra le due classi in cui è divisa la società moderna», capitolando invece per la prima volta nell’ottobre del 1917, poiché – come scriveva Marx – «[…] il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario».

In questo Lenin ha inverato e vivificato la lezione di Marx; qui la storia si è mostrata come il laboratorio galileiano in cui si verificano le ipotesi. L’Ottobre sembrava camminare sulle orme della grande sollevazione degli schiavi condotti da Spartaco, su quelle delle rivolte dei contadini nel Medioevo e delle gloriose rivoluzioni borghesi, prima tra tutte quella francese. Ma questo, lungi dal significare, come scriveva Benjamin (la cui lettura dell’Angelo della storia è echeggiata dall’immagine utilizzata da Negri/Revel delle macerie “che le rivolte lasciano dietro a se stesse”), che la classe operaia tedesca si potesse corrompere perché convinta di “nuotare a favore di corrente” poiché dalla parte della Ragione, dimostrava invece l’incidenza nuova della teoria marxista-leninista rispetto a qualsiasi altra teoria idealista su cui poggiava l’ideologia borghese.

Per questo, il Moderno Principe di Gramsci, vale a dire Lenin e il partito bolscevico, furono capaci di mettere in atto ciò che la storia era in potenza in quel caso singolare: la rivoluzione proletaria e socialista. A proposito del Principe di Machiavelli, Althusser aveva parlato di una teoria degli inizi e questa stessa considerazione si ritrova tra le righe del lavoro su Lenin e la filosofia: «Ciò che noi dobbiamo a Lenin, infatti, e che, pur non essendo del tutto senza precedenti forse, è però senza prezzo, è l’averci dato di che incominciare a potere tenere un certo tipo di discorso, un discorso che anticipa su ciò che sarà forse un giorno una teoria non filosofica della filosofia».

Lenin, per Althusser, rimette in causa la tradizionale pratica della filosofia, proponendo una pratica totalmente altra della filosofia. È la stessa XI tesi di Marx su Feuerbach che evidenzia la nuova pratica filosofica, non più interpretazione ma trasformazione del mondo: «Ciò che le Tesi su Feuerbach annunciavano era, nel linguaggio necessariamente filosofico di una dichiarazione di rottura con tutta la filosofia “interpretativa”, qualcosa di ben diverso da una nuova filosofia: era una nuova scienza, la scienza della storia di cui Marx porrà le basi, ancora infinitamente fragili, nell’Ideologia tedesca». Ovviamente è qui che Althusser si richiama a Bachelard e al suo concetto di rottura; ma è alquanto incerto quanto questo dispositivo teorico possa funzionare per ciò che è avvenuto a Londra.

Se, allora, così si possono riportare i due termini, moltitudine e proletariato, nella loro giusta collocazione storica, rimane però elusa una domanda: qual è, cioè, la ragione dell’attualità di questo dibattito (mascherato) sulla moltitudine? Formulo un’ipotesi: insistere oggi su di un recupero del concetto di moltitudine per definire le attuali dinamiche del conflitto di classe, è il tentativo ideologico del pensiero dominante di schivare la temibile offensiva di un nuovo movimento operaio, sussumendone le forme potenzialmente antagonistiche del pensiero.

Per finire: in tutto l’intervento di Negri/Revel non è mai utilizzata la parola comunismo ma “pensiero del comune”; che i compagni cui si rivolgono non ne seguano l’invito in conclusione.

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