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Un passo avanti, molti indietro

 

Ma chiunque abbia appreso qualcosa dalla storia o dalla dottrina marxista dovrà riconoscere che alla base di una analisi politica bisogna porre la questione delle classi. Della rivoluzione di quale classe si sta parlando? Della controrivoluzione di quale classe? (Lenin, Vedono gli alberi e non la foresta )

La manifestazione del 27 ottobre è stato un momento importante e significativo. In maniera organizzata, possiamo dire per la prima volta, abbiamo visto scendere in piazza un insieme di realtà politiche e sociali orientate a dar vita, in maniera non effimera e occasionale, a un reale percorso di lotta contro il Governo Monti e tutto ciò che questo rappresenta e incarna. Ma perché ciò sia possibile, ovviamente, non bastano la buona volontà e le dichiarazioni di intenti ma è necessario che una soggettività politica prenda in mano tale movimento e lo guidi nei non facili compiti che si è dato. La manifestazione del 27 ottobre, quindi, come un passaggio verso la costituzione di un soggetto politico all’altezza dei tempi. Per forza di cose, la “questione del partito”, è ciò che ha fatto da sfondo, ponendosi subito dopo come aspetto centrale del dibattito, alla scesa in campo delle varie realtà politiche e sociali che hanno condiviso in quella giornata la medesima piazza. Tutti, pertanto, a partire da lì hanno iniziato a ragionare sugli sbocchi immediati della mobilitazione ovvero: quali passaggi occorrano per compiere un necessario balzo in avanti. Qua i giochi si complicano poiché, il 27 ottobre, non sembra essere stato in grado di sciogliere i nodi strategici dei quali, per forza di cose, il movimento comunista è obbligato a venire a capo. Di ciò è necessario, non semplicemente prenderne atto, ma iniziare, con pazienza a provare a scioglierli. I problemi e le contraddizioni esistono e nascondersi dietro un dito, la riuscita della manifestazione, è un modo poco saggio e sensato per rimandare all’infinito ciò che, al contrario, deve essere affrontato di petto hic et nunc.

Tra i numerosi articoli apparsi a ridosso della manifestazione due, “È l’ora delle scelte” di Cremaschi e “Gli stanchi rituali di una certa sinistra” del Collettivo Militant appaiono, proprio in virtù della loro siderale distanza, quanto mai indicativi delle obiettive difficoltà che si stanno ponendo di fronte alle avanguardie comuniste. La disamina degli articoli non risolve i problemi ma consente, se non altro, di mettere nel mirino il cuore della questione: quale forma partito è oggi necessaria, di quali blocchi sociali deve esserne l’espressione, quali alleanze può e deve praticare, di quale “programma strategico” deve dotarsi al fine di essere il partito comunista dell’attuale fase imperialista all’interno delle metropoli europee.

Partiamo con la lettura del testo di Cremaschi il quale, indubbiamente, ha il merito di essere chiaro e propositivo. Stabilita l’incompatibilità con il PD e la sua probabile coalizione elettorale, Cremaschi ripropone un’idea della rappresentanza politica, e quindi dell’agire della soggettività, tutta interna ai meccanismi politici istituzionali. In poche parole, Cremaschi, coltiva il sogno e l’ambizione di costruire un cartello elettorale, il passaggio che rimanda alla necessità dell’unità di tutte le forze scese in campo il 27 ottobre è quanto mai esemplificativo di tutto ciò, in vista delle prossime elezioni. Non a caso, nel passaggio precedente al richiamo all’unità, insiste sulla necessità di stilare a breve una sorta di “manifesto programmatico” in grado da essere contenitore di tutte le forze scese in piazza nel No Monti Day. Ridotta all’osso, simile proposta, non sembra essere altro che una versione di sinistra della ormai defunta Federazione della Sinistra ovvero la sommatoria di tutti i “ceti politici” e le ridotte aree sociali che sono in grado di influenzare. In tutto ciò, i ceti politici, ovviamente rivestono un ruolo predominante.

La presenza, molto ben accettata, in piazza di figure quali Agnoletto e Bertinotti, su questo, la dice lunga. Il supporto sociale di questo blocco politico è dato da quelle aree di lavoro operaio e proletario ancora interne alle relazioni industriali novecentesche oggi poste di continuo sotto scacco o da alcune aree di piccola borghesia particolarmente martellate dalla crisi. Tutto ciò che, insomma, rimane ancora vagamente vivo di quella composizione di classe il cui ciclo storico, l’era del cosiddetto capitalismo globale, ha posto storicamente in archivio ma che sul piano quantitativo, può vantare numeri non del tutto irrilevanti (poco meno della metà della forza lavoro). Una forza lavoro in via di esaurimento ma ancora potenzialmente in grado di occupare parte della scena politica, sociale e sindacale. Non per caso sono stati proprio questi segmenti di classe e le loro lotte, in grado di vantare ancora una certa legittimità sociale, a catturare l’attenzione della “opinione pubblica” e della cosiddetta società civile negli ultimi tempi. Al proposito è significativa la visibilità che è stata in grado di garantirsi la lotta dei minatori della Sulcis a fronte del silenzio a cui è andato incontro, tanto per citare uno dei mille esempi che si potrebbero portare, il “caso Ikea”. Se questi sono i punti di riferimento ai quali Cremaschi mira per la messa in forma di una nuova soggettività, il suo punto di riferimento ideale, il suo progetto strategico, è l’esperienza in atto in alcune aree del Sudamerica.

Abbiamo così tre elementi cardine intorno ai quali si cristallizza l’agire politico di una componente non secondaria delle forze che hanno dato vita al 27 ottobre: il parlamentarismo, come modello principe della politica; la difesa delle condizioni lavorative del “vecchio proletariato” (la centralità dell’art. 18 è quanto mai esemplificativo); la prospettiva di un nuovo “fronte popolare” nel quale dovrebbero convergere tutte le forze democratiche, progressiste, socialiste e antimperialiste del Paese. Questa, in sintesi, la proposta politica posta nero su bianco da Cremaschi. La prossima tornata elettorale ne dovrebbe rappresentare il primo banco di prova.

Nel testo scritto dai compagni del Collettivo Militant il giudizio sul 27 ottobre e sulle prospettive che questa manifestazione apre sono ben differenti. Il Collettivo Militant vi coglie soprattutto, pur riconoscendole una qualche potenzialità comunista e rivoluzionaria, un rituale al contempo inutile e stantio. Né più e né meno che tutta la mercanzia presente sul “mercato della sinistra” pur corroborata da alcune istanze di lotta. Non a caso il dito è puntato sull’esperienza maturata poco più di un anno prima, il 15 ottobre, e tutte le aspettative che, quella giornata, sembrava aver posto all’ordine del giorno e, con lei, il protagonismo di quella che, a ragione, possiamo definire la nuova composizione di classe. Ciò che Militant rimprovera a buona parte dei soggetti che hanno dato vita al 27 ottobre è l’aver bellamente ignorato il “nuovo che nasce” considerando, coscientemente o meno ha poca importanza, la vecchia composizione di classe ancora centrale e, soprattutto, in grado di svolgere un ruolo egemone dentro il conflitto sociale e politico contemporaneo. L’aver obbligato la manifestazione entro insormontabili limiti che, di qua l’accusa del ritualismo senza costrutto, ha di fatto escluso tutta quella massa proletaria che a ciò si mostra tanto estranea quanto refrattaria, è giudicata dai compagni di Militant una scelta di campo, dal punto di vista del referente di classe, quanto mai evidente. Una scelta che, oltre a non portare da nessuna parte, reitera gli errori e i disastri ai quali è andata incontro la sinistra da tempo immemorabile.

Gli stessi numeri della manifestazione, un piccolo e ordinato ruscello rispetto al fiume in piena del 15 ottobre, ne sono una testimonianza che non ha bisogno di troppi commenti. Ciò che in sostanza Militant evidenzia, e si tratta di una posizione minoritaria dentro lo scenario del 27 ottobre ma ben distante dall’essere isolata, è l’incapacità del nuovo soggetto politico in gestazione di essere il partito della nuova composizione di classe. In altre parole di guardare al passato invece che al futuro. Ciò che Militant rimprovera alla maggioranza del 27 ottobre è il non essersi posto il problema di dare una progettualità all’insorgenza sociale che, solo un anno prima, tante speranze aveva suscitato e, per di più, di essersi abbondantemente spesa, sia sul piano politico e ancor più su quello organizzativo, per tagliare fuori questo soggetto (insieme alle sue probabili pratiche) dalla manifestazione. Il carattere assolutamente pacifico e “non militante” che gli organizzatori hanno imposto alla manifestazione ha fatto sì che, quell’evento, diventasse del tutto estraneo e inappetibile per quote non secondarie di proletariato il quale, al contrario, sembra essere interessato unicamente a entrare in gioco quando la linea di confine tra manifestazione e riot   si fa estremamente sottile. L’analisi del Collettivo Militant non lascia molto spazio all’immaginazione: nella migliore delle ipotesi, il 27 ottobre, ha rappresentato quanto di meglio, o di meno peggio, la residualità novecentesca è in grado di mettere in campo. Su questa scia non si costruisce il partito di classe del nuovo proletariato e neppure si offre la possibilità di una qualche rappresentanza politica alla classe. Seguendo questo percorso non si può che finire in quel triste mondo delle percentuali elettorali continuamente sospese tra il tragico e il comico. Si tratta di due posizioni che, nella loro radicale differenza, fotografano al meglio il modo in cui, la “questione del partito”, viene a porsi nella fase attuale e che, pertanto, vanno discusse e affrontate con il massimo di lucidità analitica.

Partiamo con l’ipotesi Cremaschi iniziando ad affrontare l’orizzonte strategico in cui questa si colloca: la reiterazione di un Fronte popolare di tutte le forze oppositive ai diktat del liberismo. L’ipotesi, di per sé, non è né giusta né sbagliata poiché, ogni orizzonte strategico va collocato nella sua dimensione “concreta” e non astratta. L’orizzonte strategico non è un dogma ma una guida per l’azione. Bisogna domandarsi, quindi, quali sono le classi sociali realmente in gioco e, a partire da ciò, elaborare la strategia. Problema analitico ancor prima che politico. Se non si comprende dove si è, diventa realisticamente impossibile tratteggiare mappa e orientamento. Si può, ad esempio, simpatizzare con la guerriglia naxalita ma sarebbe altrettanto folle prenderla a modello per quanto riguarda i nostri mondi. Intorno a noi non vi sono né foreste e ancor meno sterminate masse contadine mentre, la “questione agraria”, è stata da tempo posta in archivio. Sicuramente bravi i naxaliti, ma nel loro contesto. A noi non servono un granché. Ma quanto detto per i naxaliti non vale forse anche per le esperienze in corso in Sudamerica? Non abbiamo forse a che fare, in quel contesto, con una realtà “concreta” del tutto incommensurabile alla nostra? Certo, al pari della guerriglia naxalita, ciò che si sviluppa in Sudamerica ci appartiene sotto il profilo delle affinità elettive; ci appartiene come moto storico del movimento di classe; ci appartiene come arco di senso ma, tutto ciò, è ben lungi dal potersi tradurre in affinità operativa poiché, il nostro e il loro contesto, hanno ben poco in comune e l’appartenere, sul piano politico e ideale allo stesso campo dell’amicizia, non è condizione sufficiente a importarne la linea di condotta. Dobbiamo chiederci su quali alleanze di classe si danno le esperienze sudamericane e se, nei nostri mondi, il prospetto socio – economico racconta qualcosa di simile. Evidentemente no.

Nei nostri mondi non esiste una borghesia nazionale che si contrappone alla borghesia imperialista poiché, l’Italia e l’Europa, non sono Paesi sottoposti a dominazione imperialiste, non sono ex colonie dell’impero statunitense bensì, e almeno dai primi anni del ‘900, Paesi imperialisti i quali, nel contesto attuale, stanno realizzando la costituzione di un polo imperialista su scala Continentale. In tale scenario non vi è alcun settore di borghesia progressista poiché tutte le consorterie borghesi, pur con tenui differenze al loro interno, sono unite nel medesimo progetto strategico. Il “sostegno” parlamentare e istituzionale al Governo Monti, fornito da tutte le forze borghesi, non sembra aver bisogno di grandi commenti. Del resto, se come lo stesso Cremaschi riconosce, il PD è una forza a tutti gli effetti nemica non si capisce bene quale blocco sociale borghese dovrebbe incarnare lo spirito democratico, progressista, nazionale e antimperialista. O il PD non è un partito imperialista, e allora ha ragione Diliberto a coltivarne l’alleanza, oppure il PD è, in pieno, un partito che rappresenta gli interessi di quote non secondarie di borghesia imperialista; è un partito schierato in prima linea nell’edificazione di un blocco imperialista Continentale; è un partito guerrafondaio declinato in pieno sul militarismo e, pertanto, è impensabile installare con questi una qualunque ipotesi di alleanza. Ma se il PD, che si colloca all’estrema sinistra del fronte borghese, è tutto ciò, sembra alquanto improbabile andare alla ricerca di una borghesia nazionale interessata a opporsi ai diktat degli organismi del capitalismo internazionale e pronta a dar vita a un’alleanza di classe con le classi sociali subalterne al fine di cacciare fuori dal Paese tutti gli organismi politici, economici, finanziari e militari legati alla costituzione del blocco imperialista Continentale.

Nessuna frazione di borghesia locale, per dirla chiaramente, coltiva minimamente l’idea di chiamarsi fuori dalla BCE, dal FMI e tanto meno dalla NATO. Nessuna frazione di borghesia locale è estranea alle guerre di conquista e sottomissione varate dall’imperialismo ma, semmai, è fortemente interessata a spartirsi il bottino. Al proposito non bisogna dimenticare quanto care siano costate a Berlusconi e al suo Governo le titubanze mostrate nei confronti dell’intervento in Libia mentre, il PD e il Presidente della Repubblica, di quell’intervento ne sono stati i principali sponsor. Difficile, per non dire impossibile, trovare sul piano Continentale delle forze borghesi in rotta di collisione con il progetto imperialista. Da tutto ciò ne consegue che, così come l’Italia e l’Europa, hanno ben poco a che spartire con la campagna e la foresta indiana, hanno ben poco in comune con la Bolivia, il Venezuela, ecc. Viva i naxaliti, viva Chavez, via Morales, evviva pure i maoisti del Nepal ma tutto ciò, con le metropoli imperialiste, ci azzecca davvero poco e non è certo rincorrendo e scimmiottando modelli ed esperienze di altri contesti che saremo in grado di dare le risposte che necessitano al movimento comunista qui e ora.

Ma proseguiamo. Ciò che a Cremaschi sembra sfuggire per intero è il senso delle trasformazioni che la caduta del Muro e l’avvento del capitalismo globale hanno significato per tutti, in primis per il mondo Occidentale e, in particolare, per l’Europa dell’ovest. A non essere colta è sia la frantumazione, sia le ricadute che la nuova era ha comportato per le classi sociali subalterne dei nostri mondi. Cremaschi non vede e non coglie il dato strutturale della trasformazione e la conseguente composizione di classe che questa si porta appresso. Le relazioni industriali novecentesche non sono state poste in soffitta in seguito a certe politiche economiche sbagliate o particolarmente malvagie bensì sono state smantellate e archiviate poiché, il nuovo ciclo economico, ha esautorato la centralità di quella composizione di classe. Non è guardando al cielo della politica che è possibile cogliere le trasformazioni in atto bensì addentrandosi, sulla scia di Marx, negli inferi della produzione che diventa fattibile decifrare il senso del presente e, ancor più, quanto ci riserva il futuro. È guardando a come vivono e producono i “nuovi proletari” che diventa possibile ridefinire il programma strategico comunista perché, tale programma, non può che essere formulato tenendo presente che cosa è oggi, dentro le metropoli imperialiste, il modo di produzione capitalista. Il programma comunista non è dato una volta per tutte. Questo lo ha spiegato Lenin e a lui rimandiamo. Ma se questo è vero, e lo è, molte cose ne conseguono.

E con ciò giungiamo alle logiche parlamentariste che Cremaschi si porta appresso. Non occorre chiamare in causa Lenin e il cretinismo parlamentare per sostenere l’insensatezza di tale ipotesi. Ancora una vota, però, dobbiamo fare un richiamo metodologico ossia ricordare a Cremaschi che la lettura della politica è possibile solo dopo aver decifrato la dimensione strutturale all’interno della quale la politica viene, successivamente, messa in forma. Così come non vi è mai una costituzione ideale bensì una costituzione materiale non esiste mai una forma politica in astratto e/o eterna ma sempre una forma politica concreta e storicamente determinata. Solo la stupidità, l’ipocrisia e il servilismo dei cani da guardia delle classi dominanti possono parlare di forme politiche eterne, astratte e ideali come se, la democrazia rivoluzionaria dei giacobini, avesse qualcosa a che spartire con l’attuale democrazia americana la quale, come tutti sanno, poggia per intero sugli interessi delle multinazionali le quali, per lo più, foraggiamo equamente le campagne elettorali di entrambi i contendenti alla Casa Bianca. Pertanto, come non esiste la democrazia e la sua forma al di fuori di un contesto storicamente determinato, non esiste un parlamentarismo immune dalle trasformazioni politiche, economiche, sociali e militari che, volta per volta, le svolte storiche determinano.

Il parlamentarismo, nella storia del movimento comunista, è stata una doverosa scelta tattica, ma mai strategica (almeno sino a Lenin e a Stalin), praticata all’interno di un contesto ben specifico. Un contesto nel quale, le varie istanze parlamentari nazionali, svolgevano un ruolo politico se non decisivo sicuramente importante. Ma oggi, di tutto ciò, non vi è traccia. Questo vale per la borghesia, per la quale i parlamenti non sono altro che il luogo dove si ratifica, sul piano locale, la decisione degli organismi sovranazionali così come, al contempo, il parlamento e le sue logiche sono sempre più estranee a gran parte dei segmenti di classe codificabili come nuovo proletariato e alle folte schiere della piccola borghesia in via di proletarizzazione o pauperizzazione tout court. In tutto ciò, in relazione proprio agli strati spuri della formazione economica e sociale, il fenomeno “antisistema” del grillismo dovrebbe essere in grado di raccontare qualcosa. In tale scenario, gli unici a rimanere prigionieri del feticcio parlamentarista sono coloro i quali continuano a osservare il mondo del presente con le lenti del passato. L’ipotesi Cremaschi, pertanto, appare giungere per lo meno fuori tempo massimo. A renderla inattuale è ciò che il modo di produzione capitalistico stesso ha imposto e, alla luce di ciò, Cremaschi si mostra non diverso dai populisti russi di fronte allo sviluppo del capitalismo in Russia. Vede l’albero, ossia ciò che resta delle relazioni industriali novecentesche, senza cogliere la foresta, ovvero la nuova composizione di classe dentro la fase imperialista contemporanea.

Passando al testo di Militant, sotto il profilo dell’analisi, è difficile, in linea di massima, non concordare. Ciò che sembra importante evidenziare, però, è come in quel testo manchino due passaggi non proprio di poco conto: il modo in cui è possibile dare forma e organizzazione al nuovo soggetto sociale e in che modo i subalterni appartenenti al “mondo di ieri” e quelli del “mondo di oggi” possono, non solo convivere, ma unirsi dentro un progetto strategico comune. Il “limite” del testo dei compagni di Militant sembra essere, anche se esattamente rovesciato, non dissimile da quello di Cremaschi poiché, così come questi focalizza lo sguardo unicamente sul “mondo di ieri”, Militant guarda al “nuovo che nasce” come se, tutto ciò che rimane del passato, fosse già bello che sepolto. In ciò finiscono con l’assomigliare un po’ ai “comunisti di sinistra” russi i quali, partendo dalla giusta considerazione della centralità del proletariato e della classe operaia, consideravano in fondo inessenziale la presenza contadina e la produzione agricola parcellizzata. Certo, alla scala della storia, quel modello di produzione agricola era storicamente superata ma, questo il punto, ciò che è vero sul piano del divenire storico non necessariamente coincide per intero con la dimensione empirica e concreta con la quale si ha a che fare. Si avrebbe avuto un bel dire, alla massa dei contadini, che il loro modo di produzione, dal punto di vista storico, era obiettivamente superato. Questi, alla filosofia della storia, avrebbero contrapposto la concretezza dei loro campi, del loro cavallo, delle poche mucche e dei numerosi maiali. La “ritirata della Nep” imposta da Lenin è frutto esattamente del riconoscimento del valore della realtà empirica e concreta di fronte alle teorie generali. Fatte le tare del caso, oggi, tutto ciò lo ritroviamo nella situazione concreta in cui ci troviamo a operare. Esistono, e sarebbe folle ignorarle, masse operaie e proletarie cospicue ancora interne alle relazioni industriali novecentesche. Queste masse vanno conquistate non snobbate. Questo il primo aspetto critico che pare sensato fare al testo di Militant.

In seconda battuta occorre evidenziare come, colto il problema, Militant dica ben poco intorno alle possibili soluzioni che riguardano la costituzione della soggettività politica della nuova composizione di classe. Militant coglie con lungimiranza il problema, arriva al limite dell’area con un fraseggio invidiabile ma, a quel punto, non riesce a entrare in area. Un gran bel gioco ma il risultato non si sblocca e così, come alla fine dell’articolo di Cremaschi troviamo il parlamentarismo inevitabilmente, nel testo di Militant, sotto sotto, si finisce con, volenti o meno, l’approdare inevitabilmente al riot o a qualcosa a questi assai vicino.

Ma non sono proprio queste le due derive che una soggettività deve essere in grado di scongiurare? Non è proprio da queste due deviazioni che occorre sapersi emancipare? In tutto ciò, la Grecia (tanto per citare un esempio che è sotto agli occhi di tutti), non dovrebbe insegnarci qualcosa? Non assistiamo forse, proprio in quel Paese, all’estremizzazione malsana di queste due linee di condotta? Da un lato abbiamo lotte, anche di grande intensità e determinazione, ricondotte però continuamente dentro il cretinismo parlamentare oppure, esattamente all’opposto, delle pratiche sociali che, nell’estetica del fuoco e dello scontro, trovano la loro ragione di esistere, mentre nessuno è in grado di portare il discorso sul cuore della questione: la conquista del potere politico e la conseguente rottura con le imposizioni del potere imperialista. Nessuno si mostra in grado di saper o voler dare una spinta alla storia. Nessuno che ponga “concretamente” la questione della dittatura rivoluzionaria e si attrezzi per giungere a ciò. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: un governo di destra, una costante crescita della destra neonazista, il continuo ricatto degli organismi finanziari internazionali mentre, ogni provvedimento deciso dal Governo sovranazionale, non riesce a essere rigettato. Nonostante imponenti lotte convenzionali e/o di rottura, il potere imperialista marcia dritto per la sua strada. Il KKE pensa alle elezioni, l’ultrasinistra a come ravvivare la piazza, nessuno, questo sembra essere un dato tristemente certo, pare in grado di mettere a punto un progetto politico capace di spezzare, sul serio, l’infernale catena. Non dovrebbe, tutto ciò, insegnarci qualcosa? È lecito augurarsi di sì. È lecito augurarsi che si inizi a lavorare seriamente per superare la situazione di stallo nella quale obiettivamente ci troviamo.

Ma andando al sodo qual è il nodo da sciogliere? Riprendiamo i due testi con i quali ci siamo confrontati. Da un lato si continua a considerare centrale una certa tipologia di forza lavoro e si ignora, di fatto, bellamente tutto ciò che le sta intorno mentre, dall’altro capo della barricata, si considera già concluso il percorso in atto finendo con il considerare già estinte tutte le figure sociali, storicamente morte, ma empiricamente ben vive e vegete. Infine, ma non per ultimo, accentuare l’attenzione solo su uno dei due poli della condizione subalterna significa, obiettivamente, portare acqua al mulino della strategia padronale la quale, Fornero ne è la migliore esemplificazione, proprio sulla contrapposizione tra vecchia e nuova composizione di classe sta consolidando i suoi assetti di potere e dominazione. Inoltre, lasciate a se stesse queste figure sociali non possono far altro che muoversi, gli uni nel più inconsistente degli avventurismi, gli altri dentro le logiche della “battaglia di retroguardia”, di per sé non deprecabile, ma che diventa del tutto inutile se condotta nella logica della ritirata in permanenza. Le battaglie di retroguardia hanno senso se finalizzate alla ripresa dell’offensiva altrimenti, eroismi a parte, non possono che tramutarsi, dopo l’inevitabile logoramento che simili conflitti si portano appresso, in rotte disordinate mentre, per altro verso, le pratiche di attacco sono tali solo quando sono in grado di ristabilire il fronte di classe su postazioni più avanzate altrimenti, la momentanea offensiva priva di possibilità di consolidamento, si trasforma in ripiegamenti tanto celeri quanto disordinati. In fondo ad accomunare queste due ipotesi è la “logica dell’evento”. Per gli uni si tratta dell’evento elezioni per gli altri l’evento piazza. Ma non è forse proprio dalla logica dell’evento che occorre sapere emanciparsi? Non occorre forse contrapporre alla logica tutta borghese dell’evento l’anonimo lavoro tra le masse? Non occorre forse, attraverso il grigio lavoro quotidiano, costruire da un lato le mille fila dell’organizzazione di classe e, in contemporanea, disarticolare e disgregare le forze del sistema imperialista? Non occorre forse imparare a vivere tra le masse, fare inchiesta, occuparsi concretamente dei problemi del riso e del sale e, al contempo, propagandare tra le masse l’idea-forza del comunismo? Non è forse così che, invece di rincorrere l’evento, ci troveremo pronti a raccogliere in “concreto” gli insegnamenti delle giornate di Mosca?

Scegliere il grigio lavoro quotidiano come ambito privilegiato dell’azione politica, lavorare cioè per trasformare le rivendicazioni materiali ed economiche, sempre presenti tra le classi sfruttate e ancor più pressanti nei momenti di crisi acuta del capitalismo, in istanze politiche e in progettualità rivoluzionaria, lavorare per ridare alla classe identità e dignità rimettendo in circolo l’idea-forza del comunismo, comportano, a seguito di un’analisi teorica della situazione concreta, lo scegliere le priorità strategiche della prassi. Nel momento in cui le forze e le risorse delle soggettività rivoluzionarie sono poche e il nemico è ben attrezzato, ogni spreco di energia, ogni passo falso apre le porte ad un ulteriore arretramento. Per questo, nel contesto in cui ci troviamo ad operare, sembra quanto mai inutile adoperarsi e spendere tempo e risorse per mettere in piedi all’ultimo momento abborracciati e, per forza di cose, ambigui cartelli elettorali; quanto piuttosto appare urgente cominciare a mettere insieme un fronte unito di azione quotidiana nei territori, in cui convergano tutte le energie disponibili. Di fronte alla scadenza elettorale, lanciare una compagna, visibile, determinata, unitaria, di conflitto, di riappropriazioni e rivendicazioni nei territori, capace di ridare identità di classe, attraverso la lotta, alla massa che si astiene dal voto; capace di intercettare i delusi e gli indignati che appartengono ai settori di classe del “mondo di ieri”, facendogli intravedere le possibilità di riscatto che si aprono col “nuovo che nasce”.

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1 Commento


  • Claudio Ursella

    Condivido sostanzialmente l’analisi, in particolare per ciò che concerne il tema dell’esaurimento di ogni progetto politico legato ad una vecchia composizione di classe di tipo novecentesco; ciò che non mi convince è invece la liquidazione un po’ semplicistica del tema dell’ “evento”, sia esso un riot, piuttosto che una scadenza elettorale. C’è secondo me in questo caso una sottovalutazione del nesso tra struttura e sovrastruttura, un nesso oggi sicuramente più complesso che non ai tempi di Lenin (il quale peraltro sono sicuro che sarebbe stato in grado di coglierne gli elementi di novità). L’evento è in termini generali una modalità comunicativa: attraverso esso, che si tratti di un riot o di una elezione, una soggettività si manifesta e si riconosce, definendo quindi se stessa attraverso un atto di presa di coscienza; quanto più l’evento è coinvolgente di soggetti diversi, tanto più la presa di coscienza trascende la propria specifica condizione, per divenire coscienza di essere parte di un più vasto blocco sociale, con una più ampia possibilità di esprimere conflittualità e progettualità. Se da un lato è evidente come l’immenso sviluppo delle comunicazioni di massa ha contribuito a permettere alla borghesia di destrutturare l’identità e la coscienza di classe, dovrebbe essere altrettanto evidente che anche questo è un terreno di lotta. Se è vero che ogni strategia va collocata in uno specifico contesto, anche il parlamentarismo va ridefinito: non si tratta più, come nel ‘900, di utilizzare la tribuna parlamentare per la lotta rivoluzionaria per le riforme, cosa oggi impossibile, visto il venir meno di ogni spazio nelle istituzioni democratiche borghesi, ma di utilizzare anche quella tribuna, come luogo di battaglia nello scontro mediatico. Pur condividendo la necessità di un cartello elettorale (per quanto a tratti ambiguo), non mi aspetto che una pattuglia di deputati trovi soluzioni ai problemi dei lavoratori, ma penso che un positivo risultato di tale cartello, possa contribuire a ridare forza e a far uscire dalla rassegnazione, tutti quei soggetti che oggi non riescono a immaginare una alternativa possibile allo stato di cose presenti. E’ un evento, solo un evento, ma pur sempre un evento, come lo è stato il 14 dicembre di due anni fa, quando migliaia di cittadini si sono sentiti vicini agli studenti che assediavano il Parlamento di Scillipoti. Il mio Partito, il PRC, ha molto da imparare per ciò che riguarda il “grigio lavoro”, nel quale i compagni della Rete hanno conseguito risultati notevoli, ma penso che i compagni della Rete dovrebbero misurarsi con quella miserabile dimensione della politica spettacolarizzata, che pure tanta importanza ha nella nostra società. Forse anche questo è “sale e riso”. oggi.

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