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L’asse con Monti. Ecco perché tutti, in Italia, tifavano Obama

Un articolo informato, logico, illuminante. Anche dal quotidiano di Confindustria, a saper leggere, arrivano squarci di verità che nel dibattito “politico” restano sempre sullo sfondo. O sconosciuti.

Spread ed export, il «rimbalzo» italiano
Lina Palmerini
ROMA
«Vuole una semplificazione? L’Italia è come un ciclista che ha davanti una salita: la salita resta ma, in caso di incidenti, se vince Obama potrà contare su un aiuto mentre non l’avrà se arriva Romney». Il gestore di fondi di Wall Street non vuole assolutamente essere “quotato” ma incalzato dalla domanda su cosa cambi per noi da queste elezioni americane – alla richiesta di farlo in modo supersemplificato e a urne ancora aperte – usa la metafora ciclistica. E insiste: le riforme e il rigore restano una strada obbligata per l’Italia – quindi la salita del debito e della crescita rimane – ma la vittoria di Obama o di Romney non è indifferente. Cambierebbe la squadra: Obama oggi è un alleato, Romney no – o non ancora – e avere o meno una sponda alla casa Bianca non è un dettaglio.
Finora la sponda c’è stata. In molti ricordano il viaggio in febbraio di Mario Monti a Washington, l’accoglienza che gli fu riservata da Obama, il “gioco” diplomatico che ne nacque per fare pressioni sulla Germania sia per la stabilità dell’euro sia per cercare una via di rilancio della crescita, dunque, la continuità gioverebbe non solo all’Italia (attraverso Monti) ma all’intero percorso europeo e ai tentativi di stabilizzare i mercati. Gli effetti di questo voto, infatti, saranno più indiretti che diretti visto che incideranno nella relazione più ampia che gli Stati Uniti hanno con l’Europa e con i Paesi aderenti alla moneta unica.

Come si diceva, Obama si è speso nel rafforzare le politiche europee di integrazione, ha incalzato la Merkel, ha stretto un’alleanza con Monti, dunque, la sua conferma alla Casa Bianca vorrà dire una linea di continuità nell’alleanza con l’Europa. Potrà continuare a fare pressioni sulla Germania soprattutto adesso che la Merkel si avvicina alla campagna elettorale e potrà incidere affinchè non via sia solo una gestione della crisi dell’euro a uso interno tedesco.
Mitt Romney, invece, ha voluto subito marcare una sua distanza con il modello europeo sia dal punto di vista della moneta che dei sistemi di welfare e soprattutto di spesa pubblica. In campagna elettorale ha usato l’Italia (insieme alla Grecia e alla Spagna) come esempio deteriore di ciò che può accadere agli Usa se resterà Obama presidente. Dunque, un’Europa e una moneta che di certo non troveranno più nella Casa Bianca un ascolto. «Non che l’euro si distruggerà per effetto di Romney, ma la strada diventerà più incerta», spiega quello stesso gestore di fondi che, tra l’altro, crede che quei toni abbiano avuto più il senso della propaganda per catturare la pancia degli americani. Anche perché, al di là di Obama, il ruolo chiave l’ha avuto chi guida oggi la Fed.
Questo è un tassello decisivo per l’economia mondiale, dunque, anche per noi. Gli effetti di una vittoria di Romney porterebbero un cambio anche alla Fed data l’opposizione dei repubblicani alla politica monetaria di Bernanke. Si parla dell’arrivo del gran consigliere di Romney, il 53enne Glenn Hubbard, che porterebbe a un’inversione di marcia sulle politiche monetarie. Finora c’è stata una sponda molto forte tra Ben Bernanke e Mario Draghi, hanno condiviso passi fondamentali, la scelta di politiche espansive, la necessità di mettere sul tavolo il bazooka della Bce per fare da scudo all’euro (attraverso acquisto illimitato di titoli di Stato a breve) riuscendo a emarginare i falchi della Bundesbank contrari all’operazione. Certo, l’obiezione è che quell’arma è rimasta in un cassetto e che le chiavi ce l’ha il parlamento tedesco, ma un cambio alla Fed spezzerebbe una linea di continuità immettendo dosi massicce di incertezze nel circuito finanziario. Ci saranno nuove tensioni sull’euro e quindi sui nostri spread? Possibile. L’incertezza e l’imprevedibilità non aiutano la stabilità e aumentano il peso del rischio ma di certo non sarà nè immediato nè automatico. Sarà una parte di una crisi che ha tanti tasselli, non solo nell’inquilino della Fed.
Se la presenza “repubblicana” alla Fed invertirà le politiche espansive, porterà a un rialzo dei tassi e a un rafforzamento del dollaro, questo – tradotto per gli interessi nostrani – potrebbe diventare un vantaggio. Per l’export italiano, innanzitutto, l’unico settore che va a gonfie vele. Nel 2011 il volume delle esportazioni con gli Stati Uniti è stato di 22,9 miliardi (su un totale di 375,9 miliardi), mentre l’ultimo dato di settembre registra sul mese un balzo in avanti del 18,5%. Ma l’effetto di sollievo sull’economia dell’euro potrebbe essere azzerato da un’altra conseguenza non proprio positiva.
Lo spiegano gli analisti del settore internazionale di alcune grandi imprese quando dicono di come una politica di rialzo dei tassi potrebbe anche avere la conseguenza di rallentare la domanda Usa, insomma, un boomerang per la crescita mondiale (e quindi anche per noi). Dunque, il dilemma resta: continuità o discontinuità? Il punto è che Romney non è convinto del percorso di integrazione europea e, quindi, perché scommetterci? Invece Obama lo ha già fatto.


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