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Guatemala: strage all’ambasciata spagnola, chiesta condanna tombale per ex capo polizia

Trent’anni di carcere per ognuna delle vittime: questa la condanna richiesta per l’ex capo della Polizia nazionale (Pn) Pedro García Arredondo, unico imputato nel processo per il massacro ambasciata di Spagna di Città del Guatemala, dove il 31 gennaio 1980 le forze di sicurezza trucidarono 37 civili.
La pubblica accusa ha chiesto una pena analoga anche per Máximo Pérez y Cajal, allora ambasciatore spagnolo in Guatemala, sottolineando che l’attacco fu condotto con “pianificazione” e “coordinamento” da parte del comando della Pn guidata da García Arredondo.
L’operazione militare fu ordinata per sgomberare dalla sede diplomatica un gruppo di ‘campesinos’ che l’aveva occupata per denunciare gli abusi dell’esercito del generale Fernando Romeo Lucas García ari contro la popolazione della regione nordoccidentale del Quiché, fra le più colpite dalla guerra civile (1960-1996).
Fra le vittime si contarono Vicente Menchú e Francisco Tum, padre e cugino della dirigente indigena Maya e Nobel per la Pace Rigoberta Menchú, l’allora console spagnolo Jaime Ruiz del Árbol Soler e altri due suoi collaboratori. Nella sede diplomatica, data alle fiamme dai poliziotti, si trovavano anche l’ex vice presidente guatemalteco Eduardo Cáceres Lehnhoff e l’ex capo della diplomazia nazionale Adolfo Molina Orante.
Sull’origine dell’incendio il governo di allora accusò i ‘campesinos’ di averlo innescato con bombe molotov. La stampa spagnola pubblicò fotografie che ritraevano un agente imbracciando un lanciafiamme. Prove e perizie dimostrarono infine che le vittime erano state uccise a colpi di arma da fuoco e ustionate al di sotto della cintura. Di certo si sa che ai pompieri fu vietato l’ingresso nell’edificio fino a quando l’incendio non si spense da solo.
Il massacro, secondo il pm, “fu un’operazione di polizia clandestina”.

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