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Salta Shengen, nell’Unione Europea ci si blinda ognun per sé

La retorica comunitaria dell’Unione Europea si è retta finora su due pilastri ben visibili nella vita quotidiana delle popolazioni del Vecchio Continente: euro e libera circolazione. Con effetti pratici assai diversi – terribile l’adozione della moneta unica per le economia a più bassa composizione organica del capitale (altrimenti detta “produttività”, in linguaggio neoliberista), esaltante e liberatoria la possibilità di recarsi dappertutto con i soli documenti di identità nazionali – ma entrambi di grande potenza, sia simbolica che reale.

Sono bastate alcune decine di migliaia di profughi, incolonnati lungo la via balcanica in direzione dei “paradisi del welfare” del Grande Nord per evidenziare come sotto la patina della retorica unitaria sopravvivano robustissimi “egoismo nazionali”. La decisione svedese di stringere i controlli alla frontiera con la Danimarca – la porta di ingresso da sud verso la Scandinavia – mette fine a decenni di spostamenti sostanzialmente liberi e costringe quote robuste di lavoratori transfrontalieri a raddoppiare i tempi di viaggio.

Soprattutto, ha dato il via a un effettodomino che ha visto immediatamente la Danimarca fare altrettanto con la sua porta di ingresso meridionale, la Germania; e quest’ultima replicare la norma con l’unico paese con cui condivide anche la lingua, ossia l’Austria. Inevitabile, a quel punto, che Vienna si adeguasse alla tendenza “settentrionalista”, rimandando le guardie di frontiera ad effettuare controlli sul traffico in entrata dall’Italia. Scelte analoghe erano state fatte dalla Francia verso l’Italia nei giorni scorsi.

Di fatto, i trattati di Shengen sono sospesi. E la Commissione europea è costretta a convocare una riunione d’urgenza “coordinare al meglio la gestione comune” dei flussi di profughi soprattutto tra Stoccolma, Copenaghen e Berlino, ovvero le mete più ambite dai disperati in fuga dalle guerre mediorientali e non solo.

È la conseguenza di un fallimento molto chiarificatore: gli accordi presi nei mesi scorsi, sotto la pressione anche mediatica di quelle colonne scortate dalla polizia a cavallo, stabilivano l’obbligo di identificazione e la ripartizione dei profughi secondo quote proporzionali agli abitanti di ciascun paese europeo. I paesi dell’Est hanno alzato i muri e i reticolati, evidenziando un rifiuto totale di questi accordi. La distribuzione di fatto veniva bloccata (i trasferimenti dall’Italia sono stati 190 su 39.600, dalla Grecia appena 82 su 66.400) e i paesi per tradizione “più accoglienti” – come storicamente è la Svezia – si son venuti a trovare sotto una pressione demografica sproporzionata alle proprie capacità ricettive.

Anche la soluzione turca – 3 miliardi di euro in cambio di un efficace freno alle partenze da quel paese – non ha funzionato. Dalle coste continuano a partire imbarcazioni di fortuna verso le isole greche, con percentuali altissime di morti annegati, che alimentano – seppur con meno intensità che in estate – un flusso diretto verso i paesi più ricchi. Il che, a sua volta, irrigidisce la chiusura delle frontiere lasciando immaginare periodi molto lunghi di sospensione della libera circolazione.

Ma l’Unione Europea, senza libera circolazione, non esiste. Resta solo una serie di trattati ferrei quanto incomprensibili, che piegano i vari paesi ad applicare politiche di austerità altrettanto impopolari dei flussi migratori. Col rischio – ben evidenziato da lepeninisti, leghisti e nazionalisti vari – di una saldatura reazionaria con consistente radicamento sociale.

 

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