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Buco dei derivati, il Tesoro prova a smentire

Certe notizie possono far male non solo all’onore (di Mario Draghi, in questo caso), ma anche allo spread. Un velocissima nota del ministero dell’Economia (che ha assorbito da anni anche quello del Tesoro) prova a parare il colpo, prima che il differenziale sui titoli italiani cresca più velocemente di quanto non stia già facendo.

Il servizio del Sole24Ore da conto dello spavento.

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Tesoro: dai derivati nessun pericolo per i conti dello Stato


Precisazioni e chiariumenti sui derivati del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze dopo le indiscrezioni di stampa. Indicazioni, precisa il Tesoro, utili a comprendere che gli strumenti di protezione dal rischio di interesse oggi gestiti non comportano perdite. Che il Tesoro riassume in una frase: non esiste alcun pericolo per i conti dello Stato.

La Corte dei conti riceve ogni sei mesi la documentazione delle operazioni condotte
Come primo punto il Tesoro chiarisce che fornisce regolarmente ogni sei mesi alla Corte dei Conti tutta la documentazione relativa alle operazioni condotte in strumenti di finanza derivata. La Corte dei Conti nel mese di marzo 2013, tramite la Guardia di Finanza, ha chiesto la documentazione inerente alla sola attività di chiusura di un gruppo consistente di operazioni con Morgan Stanley. «A fronte di tale richiesta – spiega la nota – il Tesoro ha fornito tutta la documentazione richiesta, secondo tempi concordati con la Guardia di Finanza, per ciascuna operazione, inclusi i contratti pregressi dai quali ciascuna operazione ha avuto origine (copia di ciascun contratto e relativo decreto ministeriale con il quale ogni singola operazione è stata formalmente approvata) corredata da una circostanziata relazione esplicativa.

La filosofia di fondo dell’operatività in derivati
Come seconda precisazione il ministero sottolinea che la filosofia di fondo dell’operatività in derivati della Repubblica si basa su criteri ispirati al perseguimento dell’interesse dello Stato, mirando alla protezione dai rischi di mercato, primi fra tutti il rischio di cambio e il rischio di tasso di interesse. Con riferimento in particolare a quest’ultimo, «l’attività in derivati è stata mirata a conseguire l’allungamento della duration complessiva del debito, al fine di proteggere da un eventuale rialzo dei tassi, pagando tasso fisso e ricevendo variabile. Tale funzione prettamente assicurativa è stata perseguita attraverso Irs (interest rate swap) e opzioni su tassi di interesse (swaption), fissando tassi a lungo termine che, al momento della sottoscrizione, risultavano storicamente ai minimi per la scadenza cui si riferivano». Bloccare attraverso derivati un tasso fisso “a pagare” in contropartita di un tasso variabile “a ricevere”, spiega il Tesoro, «rappresenta una protezione verso futuri shock sui tassi di interesse, situazione peraltro sperimentata dallo Stato italiano a più riprese e con un’evidenza particolarmente significativa a seguito della grave crisi monetaria e finanziaria del 1992. Infatti, se in simili frangenti si devono emettere titoli a breve termine, il rischio di aumento del tasso pagato sul debito all’atto del rinnovo dei titoli in scadenza viene neutralizzato, per la parte coperta, dalla gamba “a ricevere” dello swap (a tasso variabile) ed il costo effettivo viene limitato al corrispettivo tasso fisso “a pagare” nello swap. Come ogni assicurazione, peraltro, ove l’evento verso il quale ci si protegge non si verifichi, si sopporta un costo, che rimane tuttavia giustificato dalla priorità attribuita alla prevenzione di gravi conseguenze in caso di scenari avversi». Il Tesoro precisa che il valore di mercato degli strumenti derivati in uno specifico momento, il cosiddetto mark to market, «non è in nessun caso assimilabile a una perdita realizzata. Esclusivamente in presenza di specifiche clausole le controparti possono reciprocamente esigerne la corresponsione secondo le modalità previste nei contratti».

Priva di fondamento la notizia che l’Italia abbia utilizzato i derivati per l’entrata nell’euro
È assolutamente priva di ogni fondamento l’ipotesi che la Repubblica Italiana abbia utilizzato i derivati alla fine degli anni Novanta per creare le condizioni richieste per l’entrata nell’euro. Le operazioni poste in essere all’epoca sono state sempre registrate correttamente secondo una prassi consolidata, nel rispetto dei principi contabili sia nazionali che europei. I controlli effettuati sistematicamente dall’Eurostat a far tempo dalla seconda metà degli anni Novanta, anche quelli conseguenti all’introduzione in più fasi di nuove linee guida sugli strumenti finanziari derivati, hanno sempre confermato la regolarità della contabilizzazione di queste operazioni.


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