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Malasanità in Calabria. Una testimonianza

Riceviamo e pubblichiamo:

La storia è brutta ed è questa: un ricovero all’Ospedale di Crotone, nel maggio 2011, in seguito a uno squilibrio ormonale quasi mortale.
In agitazione psicomotoria neppure una sponda a proteggere la paziente, caduta dal letto ferendosi il viso. Segue un mese di accertamenti in cui in ecografia il pancreas non è visibile (ma l’eco non viene ripetuta), la tac non viene effettuata così come neppure un marcatore tumorale. La diagnosi, da sola ecografia, ma con valori del fegato normali, è di cirrosi epatica: “Signora, si tenga in bianco, ci vediamo a ottobre”, si era detto.
L’improbabilità della diagnosi porta all’ospedale di Pisa, dove il sospetto si materializza immediatamente: mentre il fegato risulta sano, il marcatore tumorale Ca 19.9 è alle stelle. Gli accertamenti inducono a intervenire tempestivamente. Ad Agosto, in un intervento del dottor Boggi, vengono asportati coda del pancreas, milza e dodici linfonodi, di cui uno già coinvolto dalla malattia.

La diagnosi è di adenocarcinoma infiltrante. La prospettiva di vita inferiore ai due anni. La paziente aveva all’epoca 57 anni.
Nella causa contro l’ospedale di Crotone (lotta contro i mulini a vento?), il giudice nomina un consulente tecnico d’ufficio, è la prassi. Prassi vuole che gli interessi di un’istituzione marcia vadano difesi strenuamente. Il consulente dichiara, in seguito all’incontro con l’avvocato della famiglia che denuncia, la presenza di un medico che mai si è fatto vivo, neppure per telefono. Sostiene il consulente che l’errata diagnosi costituisce una “colpa senza danno”, perché la
signora sarebbe morta in ogni caso. Sostiene anche, che per un cancro del genere, due mesi di ritardo non siano un problema, ma forse ignora, o finge di ignorare, che in oncologia e per un simile tipo di malattia la tempestività è fondamentale. Ignora, o finge di ignorare, che se ci si fosse affidati al solo ospedale di Crotone la paziente probabilmente non sarebbe sopravvissuta neppure fino a Ottobre, pur rispettando una dieta in bianco. Sostiene inoltre che l’intervento chirurgico non rivelò metastasi, ignorando, o fingendo d’ignorare, quel linfonodo.
Questa non favorevole consulenza ha un grande peso in questa causa. L’udienza si terrà a fine settembre.
Certo costituirebbe un precedente non da poco quello di ammettere la responsabilità dell’ospedale di Crotone nei confronti di questo caso, visto che si tratta di un luogo in cui persino di parto si muore ancora.
Volere cura e rispetto sono pretese degne d’essere accolte? È possibile in un regime di tale negligenza discolparsi  parlando di “colpa senza danno”, o piuttosto dovremmo sentire un po’ di più il peso di tutti questi danni senza colpa?
Non so se la smetterò mai con le domande retoriche.
Ma quella paziente era mia madre, morta, dopo un’odissea di mancati soccorsi, all’Hospice di Reggio Calabria nel dicembre del 2012, dove è stata finalmente assistita con la dedizione che chiunque meriterebbe.

Grazie per l’attenzione,
Clelia Pinto

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