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I profitti petroliferi vanno a “picco”

Tra i problemi principali della crisi generale che sta attraversando il mondo da quasi sette anni a questa parte – primo segno: l’esplosione dei “mutui subprime” americani, agosto 2007 – c’è l’esaurimento delle risorse non riproducibili.

Di solito il problema viene messo in quota alle “preoccupazioni degli ambientalisti”, e quindi immediatamente derubricato nell’elenco delle “spiacevoli conseguenze” dello sviluppo capitalistico. Al pari, insomma, del lavoro minorile nei paesi “emergenti”, della silicosi dei minatori o degli incidenti sul lavoro.

Al contrario, come spiegano parecchi scienziati da decenni (dal “Rapporto del Club di Roma”, 1972), si tratta del problema principale dell’umanità. Ed anche del “limite esterno” incontrato ormai in modo evidente dallo stesso modo di produzione capitalistico.

L’elemento chiave sta nell’esatta comprensione del termine “risorse non riproducibili”. Nel mondo delle merci in cui (noi “capitalisti saturi”) siamo immersi, ogni singola cosa appare “riproducibile” per via industriale. Anche le risorse scarse, in questa logica, possono sempre essere sostituite da altre, spostando in eterno quel “limite” insopportabile per la metalità capitalistica. In cui siamo tutti immersi.

Quante volte, sollevando il problema dell’esaurimento del petrolio – per esempio – non si è immediatamente contrapposta l’obiezione annoiata “troveranno certamente qualcos’altro per sostituirlo”? E giù con l’orgia dei possibili ma improbabili o inadeguati “sostituti”. Vi ricordate quei due o tre anni in cui si è parlato dell’idrogeno? Che anni erano?

La fede nel modo di produzione capitalistico è più integralista di qualsiasi religione, perché nutre il “principio speranza” secondo cui si potrà andare avanti così ancora per un tempo infinito, lungo una via di progresso tecnologico travolgente, espandendo la ricchezza prodotta lungo una scala accelerata. I nostri nonni, in fondo, zappavano a mano e viaggiavano quasi tutti a piedi… Come migliaia di anni prima. Noi invece…

“Non riproducibile” è concetto ostico quanto mai, per chi ha questa fede innata e acritica. Dice che c’è qualcosa che non si può fare. Non possiamo produrre un petrolio che non c’è (ci ha pensato la natura nel Paleozoico, centinaia di milioni di anni fa), né gas metano (a parte quelle piccole quote che si formano negli intestini degli esseri viventi…), né acqua, né terra coltivabile. Quel che c’è c’è, una volta per tutte, nel caso degli idrocarburi; oppure segue un ciclo riproduttivo naturale che è pericoloso spezzare (acqua, terra).

Perdonate la lunga premessa, necessaria però per comprendere la dimensione del problema che è davanti.

Abbiamo parlato più volte del “picco del petrolio” (https://www.contropiano.org/articoli/item/21126, https://www.contropiano.org/articoli/item/18456, https://www.contropiano.org/economia/item/1995-il-picco-del-petrolio-ora-ha-una-data, https://www.contropiano.org/archivio-news/documenti/item/12526), cioè del superamento di quella soglia oltre cui la “produzione” di greggio – in realtà la sua semplice estrazione dal sottosuolo – comincia fisiologicamente a calare, annunciando un esaurimento tanto più rapido quanto più si cerca di mantenere alta la quota estrattiva giornaliera. Non è difficile capire sul piano logico o aritmetico che, se hai un litro d’acqua, puoi berlo in un minuto o un giorno, ma entro quel tempo finisce.

Col petrolio noi (l’umanità capitalisticamente organizzata) abbiamo bevuto a garganella. E molti segnali ci dicono che quel “picco” – corrispondente grosso modo al 50% della disponibilità naturale – è stato superato negli ultimi anni. Avevamo pubblicato diverse volte articoli che davano conto dell’evoluzione del problema, premettendo sempre che si tratta di “dedurre” lo stato delle cose da una serie di dati, spesso falsificati all’origine (dai paesi produttori o dalle multinazionali petrolifere). Insomma: si tratta di applicare una scienza esatta (“il picco di Hubbert” è una teoria fisica verificata empiricamente da decenni) a dati incompleti, imprecisi, falsificati. In questo modo diventa incerta la collocazione temporale esatta del “picco”, ma la sostanza non cambia. Che questo sia avvenuto – come sembra – nel corso degli ultimi anni, o sia alle porte del prossimo ventennio (come dicono i petrolieri), la sostanza non cambia di molto. Per come viviamo – inseguendo la massimizzazione del profitto, non la certezza della riproduzione dell’intera umanità – le due date sono identiche, sul piano storico. Dieci o vent’anni non fanno differenza.

Proponiamo però qui una serie di stralci da articoli di giornali mainstream, tutti molto importanto e assolutamente attendibili, proprio perché “ideologicamente” neutri o interni alla logica capitalistica. Illustrano problemi differenti, ma tutti convergenti verso una conclusione unitaria obbligata: il “picco” c’è già stato.

Vediamo perché, ringraziando Dario Faccini, che li tradotti e pubblicati su AspoItalia, “sezione” italiana dell’associazione di scienziati che si occupa del “picco”.

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Dal The Wall Street Journal, 28/1/2014

Le grandi compagnie petrolifere si sforzano di giustificare l’impennata dei costi di sviluppo dei progetti

La Chevron, l’Exxon Mobil e la Royal Dutch Shell hanno speso più 120 miliardi di dollari nel 2013 per incrementare la loro produzione di petrolio e gas – circa lo stesso costo, in dollari rivalutati, che è stato necessario per portare l’uomo sulla Luna. Ma i tre giganti petroliferi hanno ben poco da mostrare in cambio delle loro spese.

La produzione di petrolio e di gas sono in calo, nonostante le spese combinate di 500 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni. Ciascuna compagnia dovrebbe comunicare entro questa settimana un calo di profitto per il 2013 rispetto al 2012, anche se i prezzi del petrolio sono elevati.

Uno dei maggiori problemi è che i costi stanno andando alle stelle per molti dei nuovi “mega-progetti” intesi a sfruttare i giacimenti di petrolio necessari per rimpiazzare i campi in esaurimento.

I piani in corso per estrarre petrolio con isole artificiali nel Mar Caspio potrebbero costare 40 miliardi dollari al consorzio che comprende Exxon e Shell, valore in crescita rispetto al bilancio iniziale di 10 miliardi. Il prezzo da pagare per un progetto di gas naturale in Australia, chiamato “Gorgon”, di proprietà congiunta delle tre società, si è gonfiato del 45% a 54 miliardi dollari. Secondo persone che hanno lavorato al progetto, Shell sta spendendo almeno 10 miliardi dollari su una tecnologia non testata per costruire un impianto di gas naturale su una grande barca in modo che l’azienda possa sfruttare un giacimento remoto.”

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da Bloomberg News, 29/1/2014

I profitti petroliferi crollano con le alte spese che non riescono ad incrementare la produzione

Gli investitori scansano le più grandi compagnie petrolifere mondiali a causa dell’impennata dei costi di perforazione, del ritardo dei progetti più grandi e della stagnazione dei prezzi dell’energia.

[…]

Il problema per le major petrolifere è duplice: i costi sono in aumento e prezzi del petrolio non lo sono, mentre la complessità di sviluppo delle scoperte più recenti di petrolio e gas impedisce di raggiungere gli obiettivi di produzione.

Assediate dai rendimenti ridotti e dai ritardi nei costosi progetti, sei delle più grandi imprese esploratrici di petrolio del mondo probabilmente freneranno la spesa per l’esplorazione e la produzione (E&P) quest’anno a 148 miliardi dollari dai 149 miliardi dollari, dopo due anni consecutivi con aumenti dell’8 per cento…

“Gli investitori si stanno arrabbiando e non vogliono che le compagnie petrolifere investano”, ha detto Tiscareño. «Ma se non investono, non saranno in grado di pagare i dividendi in futuro.”

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dal Financial Times, 30/1/2014

La Shell si tira fuori dalla perforazione dell’Artico nel 2014

Royal Dutch Shell intende sospendere la sua controversa perforazione nelle acque dell’Artico al largo dell’Alaska come parte di un multimiliardario ridimensionamento della spesa per nuovi progetti intrapreso da Ben Van Beurden, amministratore delegato. “

[…]

Van Beurden ha detto che la stretta di cinghia sarebbe stata segnata da “scelte difficili sui nuovi progetti di investimento, crescita ridotta e più vendite di asset».

[….]

Le sue osservazioni sono venute due settimane dopo che Shell, il più grande gruppo petrolifero in Europa per valore di mercato, ha pubblicato il suo primo profit warning in 10 anni.

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da IlSole24Ore, 30/1/2014

L’impennata dei costi mette a rischio i conti dei big del petrolio

A dispetto di tutta la retorica sul miracolo shale negli Usa, espandere la produzione di idrocarburi – o anche solo compensare il declino dei vecchi giacimenti – al giorno d’oggi è in realtà una sfida difficilissima. La tecnologia (e le quotazioni del greggio a lungo elevate) hanno in effetti consentito di estrarre risorse un tempo irrecuperabili. Ma il fracking – così come le trivellazioni in alto mare o l’estrazione di greggio da sabbie bituminose – è un procedimento costoso. Esaurite le risorse “facili”, inoltre, le majors si stanno affidando sempre più spesso a megaprogetti di elevatissima complessità, che presentano difficoltà tecniche inedite e spesso si trovano in aree pericolose, difficili da raggiungere o afflitte da condizioni climatiche estreme. Progetti che tra l’altro richiedono molti anni di lavoro per vedere la luce e che rischiano di arrivare in produzione quando il mercato è in condizioni diverse rispetto a quando si è avviata la pianificazione.

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Conclusione obbligata. Se ci sono costi crescenti, produzione ferma o in calo, “fonti non standard” in posti “estremi”… il gioco del petrolio sta vicinissimo alla fine. E al contrario di quanto assicurato dal “principio speranza”, il sostituto non c’è. E non certo perché non sia stato cercato…

 

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