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Montedison a Bussi. Una strage volontaria

Quanto può essere criminale un’impresa che punta al profitto e al massimo contenimento dei costi? Non esiste alcun limite. La natura omicida della privatizzazione è inscritta nel “comportamento spontaneo”, irriflesso, di qualsiasi imprenditore, anche senza che abbia “studiato” per diventare tale.

Se n’è avuta la prova – addirittura giudiziaria – ieri, alla Corte d’Assise di Chieti, durante la requisitoria dei Pm sulla megadiscarica di Bussi (Pescara). L’accusa ha mostrato un documento datato 1992 e che per i pm si riferisce alla conclusione di una riunione tra alcuni degli imputati. Uno “confessione involontaria” in cui sono descritti i problemi creati dai clorurati nell’acquedotto Giardino, decine di anni prima che la magistratura si occupasse del caso. Fino a tutti gli anni ’60, infatti, il sito industriale chimico di Bussi ha sversato una tonnellata al giorno di veleni residui della produzione nel fiume Tirino.

E dire che allora la Montedison era un’impresa pubblica, di proprietà statale; che dunque avrebbe anche potuto spendere qualcosa di più per evitare una strage – lenta ma certa – tra la popolazione servita dall’acquedotto Giardino.

La Procura di Pescara durante la requisitoria ha reso pubblica una lettera inviata nel 1972 dal Comune di Pescara – a firma dell’allora assessore Contratti – ai vertici della Montedison di Bussi. Lì si chiedeva di rimuovere i rifiuti tossici interrati nel sito perché costituivano un pericolo di inquinamento concreto per le falde acquifere dell’acquedotto Giardino, che forniva l’acqua potabile a tutta la Val Pescara. Per i Pm questo dimostra come già allora si sapesse degli effetti letali dell’interramento dei rifiuti.
I pm, inoltre, hanno mostrato un documento interno dell’azienda in cui la stessa Montedison segnalava che l’acidità delle scorie avrebbe addirittura potuto sciogliere i cassoni di cemento utilizzati per seppellire i rifiuti industriali nella discarica Tremonti.

A fine anni ’70 Montedison, infatti, inseriva le scorie acide in cassoni di cemento che poi venivano portati con dei camion nella discarica Tremonti del sito di Bussi, per essere seppelliti. È quanto ricostruito, citando una testimonianza agli atti, dai pm Mantini e Bellelli nella requisitoria. I pm hanno poi mostrato il documento sull’ effetto dell’acidità delle scorie sul cemento.
In uno dei passaggi in cui i pm ricostruiscono la vicenda, si evidenzia che la discarica Tremonti di Bussi, sequestrata nel marzo del 2007, è arrivata a saturazione nel 1983, mentre nel 1974 era al 75% della capienza.
Una discarica che continua ad inquinare nonostante alcuni lavori di messa in sicurezza. Per il perito dell’accusa, il ‘capping’ (copertura), ha avuto effetto positivo ma i valori sono ancora sopra la soglia. La conferma da perizie ad hoc. Secondo il perito della difesa, invece, sarebbe il fiume a contaminare alcuni pozzi. O forse il destino cinico e baro…

 

 

 

 

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