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Un altro mondo è impossibile

La crisi ecologica ha tempi stretti, ormai. Quella economico-sociale avrebbe tempi più lunghi, se potesse fare astrazione dalle condizioni fisico-ambientali della produzione e riproduzione. Dunque l’intersezione tra le due crisi, con quella ambientale che accelera il passo e quella economica che procede a strappi da oltre 10 anni (se si prende per buono l’inizio con la crisi dei mutui subprime e il successivo crollo di Lehamnn Brothers), è il problema dei problemi. Per tutta l’umanità, sia che se ne renda conto sia che nasconda le scorie sotto il tappeto (la posizione di Bush e Salvini, per capirci).

Problema immenso, dalle variabili pressoché infinite, ma interpretato quasi sempre in modalità “mono”, anziché “stereo”. Ossia viene analizzato o a partire dalle sole variabili climatico-ambientali, o privilegiando in modo pressoché assoluto le variabili economiche. In questo modo, ci sembra evidente, si rischia di parlare a vuoto. Con gli “ambientalisti” che lanciano disperati appelli alla razionalità, che consiglierebbe ovviamente di rivedere integralmente – e soprattutto immediatamente – il modello di sviluppo, gli stili di vita, la struttura e la qualità dei consumi. E gli economisti che si preoccupano si garantire “la crescita”; ossia di mantenere esattamente tutto quel che andava cambiato già 40 anni fa, pur di lasciare che il profitto resti il motore del sistema.

Questo contributo serio e appassionato, apparso qualche giorni fa su Jacobin Italia, appartiene integralmente al primo filone, quello ambientalista. Pone i problemi veri, ma si ferma spaventato quando dovrebbe mettere sotto accusa il modo di produzione. Perché su quello non ha molte soluzioni da offrire al pubblico.

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Mark Fisher in Realismo Capitalista ha scritto, citando Fredric Jameson, che «è più semplice immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Ragionando sulla cultura pop degli ultimi decenni, Fisher notava come all’interno del nostro immaginario collettivo fosse presente in maniera sempre più consistente e solida la visione di un’apocalisse planetaria piuttosto che quella di una radicale trasformazione del sistema economico e sociale. Questa frase mi è risuonata molte volte in testa mentre leggevo l’ultimo rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) sui cambiamenti climatici: un rapporto in cui le Nazioni unite hanno messo nero su bianco che abbiamo all’incirca dodici anni di tempo per mettere in campo tutte le energie a disposizione dell’umanità per salvare questo pianeta.

Non una riunione dell’ennesima internazionale comunista – con buona pace di quel che pensa il nuovo ministro dell’ambiente brasiliano – ma la comunità internazionale e l’intero mondo scientifico nelle scorse settimane ci hanno lanciato un allarme che avrebbe dovuto scuotere tutti a fare qualcosa, in particolar modo chi nell’attivismo e nella politica vede uno strumento che nasce dai bisogni collettivi per individuare soluzioni collettive.

Non sono tanti, dodici anni. Molto spesso giudichiamo un sindaco, una fase politica o un governo sulla base di due mandati.  Tra poco più di una decade saremo chiamati invece a giudicare noi stessi e l’umanità. Dodici anni sono il tempo giusto in cui si possono definire progetti di vita a medio termine: non so quante persone della generazione precaria riusciranno ad avere la certezza di un reddito sicuro, nei prossimi dodici anni. Forse per alcuni di essi è più probabile che finisca il mondo. Ed invece in questo stesso lasso di tempo siamo chiamati a definire un piano per la nostra salvezza: un compito da capogiro.

Eppure non siamo sommersi da prime pagine, notiziari straordinari: il mondo sta finendo! Forse è una notizia troppo enorme per essere compresa, forse troppo potente per essere diffusa. Per salvarci bisognerebbe trasformare radicalmente i sistemi economici dominanti ribaltandone le gerarchie, mettendo i bisogni dell’umanità al di sopra di ogni tema particolare, di ogni interesse di parte. Per l’1% della popolazione, però, significherebbe mettere in discussione ricchezza, privilegi, patrimoni, potere. E allora perché farlo? La catastrofe non sarà mai un singolo momento, sarà un processo lungo, con accelerazioni improvvise, ma chi è ricco può sperare di cavarsela per un po’ di più: meglio continuare a investire nel petrolio, nel carbone, nelle cementificazioni e intanto continuare ad accaparrarsi tutte le risorse naturali del pianeta.

Già nel 2014 Naomi Klein in This Changes Everything descriveva come ci trovassimo in una strana situazione – unica nella storia – in cui bastava perpetuare esattamente le cose che abbiamo fatto finora per far raggiungere al mondo il collasso. Non c’è più bisogno che qualcuno prema un bottone rosso per far partire la guerra nucleare. Per morire tutti, semplicemente, basta non fare nulla, è sufficiente far finta di nulla. L’umanità è su un autobus chiamato capitalismo che corre verso un burrone senza alcuna protezione per salvarsi. Non serve svoltare leggermente, bisogna cambiare radicalmente direzione.

Eppur si muove, o forse no?

Negli ultimi anni sembrava muoversi qualcosa. Dopo decenni di negazionismo, un lungo lavorio dei movimenti ambientalisti e il continuo susseguirsi di catastrofi naturali aveva portato oltre 190 paesi riuniti a Parigi nella Conferenza Cop21 del 2015 a firmare un accordo in cui si impegnavano a mettere in campo tutte le misure necessarie a mantenere l’aumento della temperatura terrestre sotto la soglia di 1,5 gradi. Non era previsto nessun meccanismo sanzionatorio, perché non si prevedeva la necessaria trasformazione economica e perché gli impegni presi singolarmente dagli stati non erano abbastanza ambiziosi e avrebbero portato l’aumento della temperatura ben oltre la soglia critica di 2 gradi. Tuttavia, ci dicevano, la storia era segnata, la direzione presa. Nessuno si sarebbe tirato indietro.

E invece già alla Cop22 di Marrakech,  un anno e un’era politica dopo, si aggiravano nel tendone verde e blu della conferenza facce cupe che rimuginavano sull’annuncio del neo-presidente statunitense Donald Trump di uscire dall’accordo di Parigi. Nei convegni ufficiali sentimmo tante frasi vuote come «andremo avanti lo stesso» ma tutti sapevano che senza gli Stati uniti il processo si sarebbe fermato. Ne erano ben consapevoli i movimenti sociali e ambientali che da tutto il mondo erano riuniti in quegli stessi giorni all’università di Marrakech, decine di panel e assemblee in cui non si faceva che ripetere come fosse necessario mettere insieme giustizia ambientale, sociale ed economica, di come i movimenti dovessero rimettersi al centro della scena per salvare il mondo denunciando l’incompatibilità tra il nostro sistema economico e la salvezza della nostra specie.

Qualche mese dopo una persona più di tutte si erse a difesa – acritica, ca va sans dire – dell’accordo di Parigi, della centralità dell’Unione europea nella trasformazione ecologica, della compatibilità tra élite e ambiente: il candidato, e poi presidente francese, Emmanuel Macron. Incensato da tutta la stampa continentale, ormai terrorizzata dall’avanzare della variabile populista, il neo-presidente vittorioso sul fascismo lepenista si era lanciato in lunghi strali in nome dell’umanità intera contro Trump e la sua uscita dall’accordo di Parigi.  Il tutto mentre tagliava le tasse ai ricchi e ingaggiava una lunga battaglia contro i lavoratori e i movimenti sociali francesi.

Senza alcun successo internazionale e senza alcun piano di transizione ecologica per il suo Paese Macron ha subito quest’estate lo smacco delle dimissioni del numero due del suo governo: il popolarissimo Nicolas Hulot, voce di tanti ambientalisti francesi che per la prima volta aveva accettato di far parte di un governo. Il ministro ha detto di essere stato «lasciato da solo». Il governo non aveva trovato il coraggio necessario a prendere decisioni che avrebbero scontentato i pochi per salvare i molti. Quei pochi – banchieri, industriali, alta amministrazione – erano proprio i principali sponsor del presidente francese.

Dopo qualche mese il leone del neo-liberismo europeo sembra sempre essersi ridotto ad un gattino. Con i sondaggi che lo danno al 25% dei consensi, si trova ad affrontare un nuovo movimento di contestazione: “i Gilet Gialli”. Due giorni di blocchi stradali e autostradali da parte di una variegata moltitudine delle province – tante le similitudini con i nostri “forconi” – che hanno protestato contro l’aumento del costo della benzina derivante dalla decisione del governo di ridurre gli sgravi fiscali al consumo di diesel. Il provvedimento è giusto: in un momento storico in cui il diesel dovrebbe essere bandito è un’assurdità che in Francia addirittura godesse di agevolazioni fiscali. Allora cosa succede?

Succede che non c’è ecologismo senza giustizia sociale, non c’è compatibilità tra liberismo e ambiente. Le classi popolari – così come succede spesso nelle nostre città – non possono vedersi imposti tutti i costi etici («La colpa è dei vostri stili di vita!») ed economici (tassazioni, blocco delle auto) della transizione. Non c’è transizione senza coinvolgimento popolare, senza l’introduzione di una stringente carbon tax per i grandi inquinatori e le aree industriali in grado di sostenere il benessere collettivo nella transizione, senza riqualificazione ed efficientamento delle città, senza incentivare i trasporti collettivi e pubblici. Macron, invece, taglia le linee ferroviarie secondarie e aumenta il costo del diesel: manuale perfetto di come indirizzare le masse popolari indebolite dalla crisi contro l’ecologismo.

Nel frattempo il magnate dell’elettricità a carbone Daniel Kretinsky entra a far parte del gruppo editoriale di Le Monde e si parla addirittura di un suo interesse per il gruppo La Repubblica-Espresso, alla faccia dell’orizzonte segnato nel trattato di Parigi. Il suo impero dell’energia Eph è cresciuto acquistando le centrali a carbone che le grandi aziende “occidentali” stavano dismettendo rimettendole in funzione per vendere quella stessa energia inquinante ai suoi stessi venditori, arricchendosi e ambendo a entrare a far parte del club: un bel esempio di come funziona, e di quanto sia inutile, il green washing delle aziende dell’energia in assenza di un piano pubblico di riconversione.

Esiste un bug nel sistema?

 La prossima conferenza sul clima, la Cop24, si terrà a Katowice, nel cuore carbonifero della Polonia. Ci si aspetta una necessaria risposta al rapporto  dell’Ipcc. Intanto, qualcos’altro si sta muovendo in Europa e nel mondo, fenomeni ed eventi che bisogna provare ad avere in mente per individuare possibili traiettorie su cui i movimenti sociali e politici dovrebbero muoversi. La destra populista che avanza in tutto il mondo si sta saldando ai grandi interessi economici anti-ambientali: dalla volontà del governo di Bolsonero di eliminare le tutele per l’amazzonia, agli “ambientalisti da salotto” e “gli inceneritori in ogni provincia” di Matteo Salvini. Ovunque si nota come, quando il populismo diventa il tentativo estremo delle élite di difendere i propri interessi, il tema ecologico sfugga alla voracità politica onnivora delle nuove destre sociali. Eppure la coscienza ambientale nel mondo è cresciuta a dismisura, il problema ecologico viene riconosciuto dai più come un elemento centrale per la definizione del futuro.

Evidentemente con l’ecologia social la nuova destra continuerà a scontrarsi, rappresenta un suo limite esterno che ne approfondisce le contraddizioni. Dopotutto quale interesse popolare maggiore della salvaguardia dell’ambiente, della salute, della vita? È chiaro che la narrazione dominante della “presa in carico degli interessi del popolo” va in tilt su questi temi. Ciò è vero a maggior ragione se pensiamo che in tutto il mondo il clima non aspetta il dibattito politico: eventi di natura estrema si stanno moltiplicando in tutto il pianeta. Dagli incendi in California allo scioglimento del permafrost, dalla siccità ai temporali estremi cui abbiamo assistito in Europa. Il clima mette a nudo le politiche di cementificazione, i tagli dell’austerity e l’ incuria degli ultimi anni: là dove non sono state messe in campo politiche di adattamento, di miglioramento e di manutenzione – come in Italia – cominciano ad esserci decine di vittime causate dagli eventi climatici e da un sistema di intervento e soccorso ridotto al lumicino.

Il 18 novembre, proprio a partire da questa considerazione, in Inghilterra alcuni ponti di Londra sono stati bloccati da migliaia di attivisti di “Extincion Rebellion”. I ribelli all’estinzione hanno già annunciato altre date di mobilitazione e l’inizio di una campagna politica di disobbedienza civile e di blocchi stradali per mettere al centro il tema ambientale nel dibattito pubblico. «Il contratto sociale è stato rescisso. È quindi non solo un nostro diritto, ma un dovere morale supplire all’inerzia e alla palese inadempienza del governo britannico, ribellandoci per difendere la vita in quanto tale», hanno affermato gli organizzatori della protesta. Chiedono che il governo britannico adotti politiche vincolanti per ridurre le emissioni di carbonio e i livelli di consumo, che convochi un’assemblea nazionale dei cittadini per supervisionare i cambiamenti.

Il Bel paese dei disastri

E in Italia? Cosa si sta muovendo in uno dei paesi che, con il Club di Roma, fu tra i primi a  porre la questione dei limiti dello sviluppo a tutto il pianeta? Sull’ambientalismo italiano hanno pesato due grandi fattori: da un lato il disfacimento del partito dei Verdi e la sua continua compromissione e perdita di identità nei governi – e poi nei partiti – del centrosinistra; dall’altro lato il limite storico della sinistra italiana che da quarant’anni non riesce a fare i conti con le novità apportate dal movimento studentesco, dal movimento femminista e dal movimento ecologista. I limiti storici del Pci sono sopravvissuti al Pci stesso, rendendo sempre più estraneo il mondo della politica italiana ad ampi settori di mobilitazione della società. Eppure, sul tema ambientale l’Italia non è affatto pacificata. Dal referendum del 2011 sulla difesa dell’acqua pubblica e contro l’energia nucleare, i nostri territori sono stati attraversati da mobilitazioni imponenti che avevano al centro il tema della salute dei cittadini e della salvaguardia dell’ambiente: movimenti, questi, che nonostante fossero fuori dai radar della politica tradizionale non hanno mai subito quel fenomeno di “svuotamento delle piazze” degli ultimi anni.

C’è la decennale lotta No Tav che ancora oggi, soprattutto con l’importantissimo corteo dell’8 dicembre, mostra la capacità di mettere in contraddizione l’intero sistema di intrecci politici-economici-mafiosi che spesso hanno caratterizzato la storia del nostro paese. O la mobilitazione contro le trivellazioni petrolifere che ha portato al referendum del 17 aprile 2015 boicottato e osteggiato dal Pd. Pur non raggiungendo il quorum, quella consultazione è stata fondamentale per ridurre il consenso, che allora molti definivano inscalfibile, di Matteo Renzi.  Fino alla lotta dei movimenti di Stop Biocidio in Campania, che organizzò la storica manifestazione di 150.000 persone del 16 novembre 2013, denunciando il sistema economico e sociale che permette i roghi tossici, gli sversamenti di rifiuti e l’aumento delle patologie tumorali nella Terra dei Fuochi.

Proprio queste questioni – la lotta alle grandi opere come Tap e Tav, la lotta contro gli inceneritori, quella per l’acqua pubblica e contro le trivellazioni e per la tutela del paesaggio. – sono elementi di crisi del governo gialloverde.  Il Movimento 5 stelle ha approfittato del vuoto di rappresentanza politica accreditandosi come l’alternativa che avrebbe tutelato la salute dei cittadini e dei territori contro la Casta che fino a quel momento si era solo arricchita: emblematiche in questo senso le percentuali bulgare prese dai grillini in Salento, a Taranto o in Campania.  Speranze e desideri che, come nel caso della Tap o dell’Ilva di Taranto di cui era stata promessa la chiusura, sono stati ampiamente traditi una volta arrivati al governo e che ora rappresentano un humus di insoddisfazione al governo che necessita di una rappresentanza politica e sociale in grado di rimettere al centro la vita, la salute, il clima e l’ambiente.

Un lavoro pulito

Non si tratta di provare a copiare e tradurre fenomeni politici esistenti altrove, che siano i Verdi tedeschi, le mobilitazioni inglesi e francesi o la grande attenzione ambientalista del governo Psoe-Podemos in Spagna. Sicuramente sarà necessario superare il grande limite dei conflitti ambientali che si sono prodotti nella nostra penisola: l’incapacità negli anni di costruire un network, una rete solida di esperienze in grado di definire un orizzonte unico complessivo capace di portare le relazioni tra comitati oltre la fondamentale solidarietà e complicità delle piazze e delle lotte. È difficile farlo in un momento in cui sono crollati i soggetti politici e sociali di riferimento, ma attorno a questo nodo si gioca gran parte del futuro di una qualsiasi proposta di alternativa non liberista al governo Salvini-Di Maio. È  necessario darsi l’ambizione di organizzare il consenso diffuso che emerge ogni qual volta si parla di tutela ambientale, della vita e della salute. Sarà possibile farlo soltanto all’interno di una politica dei bisogni dei nostri territori che lavori su oggetti concreti ma in grado di generalizzarsi all’interno del contesto climatico emergenziale più generale, così come descritto nel rapporto Ipcc.

È di vitale importanza, inoltre, ragionare su come rimuovere il più grande blocco alla federazione di movimenti ecologisti e di quel che resta del pensiero e delle organizzazioni della sinistra storica del nostro paese: la cosiddetta contraddizione tra lavoro e ambiente. Un nervo scoperto che le élite conoscono bene, e che manovrano abilmente per rompere i fronti di lotta, come accade a Taranto o in qualunque altra città in cui la tutela occupazionale si scontra con la tutela ambientale. Se ne esce solo sottraendosi alla difesa dell’occupazione esistente. La tutela ambientale e climatica con le sue politiche di adattamento, di riqualificazione, rigenerazione, bonifica, manutenzione delle infrastrutture e lotta al dissesto idro-geologico può creare lavoro per decine di anni in tutto il paese. Con l’unica grande opera necessaria, la salvaguardia del territorio, salveremo vite umane e territori mantenendo, anzi incrementando, l’occupazione e distribuendo gli investimenti su tutto il territorio nazionale.

In questo senso mi sembra importante che la Fiom-Cgil oggi sia impegnata in due grandi vertenze che hanno un enorme valore generale e che dovrebbero raccogliere il consenso e l’impegno di tutti gli ecologisti: quella per la produzione dell’auto elettrica all’interno del piano industriale Fiat e quella per la creazione di un polo pubblico italiano per la produzione di autobus che abbia al centro gli stabilimenti Iia di Bologna ed Avellino. Sono vertenze che parlano della necessità di un Piano industriale nazionale in grado di cogliere la sfida del cambiamento climatico e la necessità che il mondo produttivo così come quello politico faccia la sua parte nella trasformazione delle nostre città e dei nostri stili di vita. Sembra difficile, pare che l’impegno di un singolo individuo non sia utile per affrontare un tema enorme come quello della sopravvivenza della specie.Ma l’unica speranza è attivarci e mobilitarci a partire dal nostro piccolo, dalle nostre città e i nostri territori, dalle innumerevoli politiche che si possono imporre a livello municipale fino alle più grandi campagne di opinione. E fare in modo che sempre più gocce si uniscano in un fiume in piena pronto ad assaltare le istituzioni per imporre una trasformazione ecologica necessaria a dare un futuro al nostro pianeta.

Abbiamo solo dodici anni di tempo. Forse anche meno.

Stefano Kenji è attivista Arci Avellino, già membro della delegazione italiana alla Cop22, del comitato referendario contro le trivellazioni e parte di movimenti ecologisti come Stop Biocidio.

* da Jacobin Italia

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