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Enzo Del Re, il poeta proletario

Daniele Sepe
 Autoriduzione e testi strepitosi

 Un giorno mio padre mi portò un disco. Era stato al Festival dell’Unità e aveva assistito a un concerto. Era un disco giallo, senza foto o disegni, fondo giallo e una scritta rossa: Enzo Del Re Il Banditore. Mi disse: «Sentitelo per bene, perché questo c’ha cervello».

Era il ’74 e giallo e rosso voleva dire Maoista. Io, anarchico, lo misi sul Lesaphon da tre lire con una certa diffidenza. La musica era come la copertina, essenziale: la voce e qualcosa che pensavo fossero bonghetti. Una stranezza nell’era del pop e del folk. Ma i testi erano strepitosi: Il superuomo, Voglio fare il boia, Lavorare con lentezza. Prese posto a fianco ai dischi di Buttitta e Salvatore.
Cominciai a cercare informazioni su chi era il tipo strano, e mi arrivavano strane voci: è un compagno pugliese, suona da solo con una sedia e niente altro, usa solo i pullman per spostarsi, fa l’autoriduzione e quando arriva il controllore si mette a fare comizio per i passeggeri, contro il biglietto e per il trasporto pubblico gratuito, vuole suonare otto ore e a paga sindacale di operaio…
Non mi capitò di incrociarlo, all’epoca de’ I Zezi, tra i festival del Proletariato Giovanile e quelli dell’Unità. Anni dopo decisi di fare un cd dedicato al lavoro, o meglio, alla fatica, e mi ricordai di quel pezzo Lavorare con lentezza e la sua continuazione geniale, Tengo ‘na voglia ‘e fa niente. E andai a cercarlo.
Avevo conosciuto negli anni molti compagni di Bari. Uno di questi, Alessio ‘o prufessore, si era aperto un agriturismo alla buona, ex ML era quello che ne poteva sapere qualche cosa.
Mi disse: «Enzo Del Re? Oggi è giorno di mercato a Mola, andiamo che te lo porto a salutà».
Stava seduto dietro un banchetto, piccolo, minuto, con una barbetta bianca, e sul banchetto decine di cassette, quelle vecchie che non si usano più, e qualche libro piccolo quanto lui.
Mi disse: «L’ho sentito il pezzo come l’hai fatto tu, ma ti sei dimenticato la strofa che parla di Rino Gaetano».
«Dov’è che parla di Rino Gaetano, Enzo?»
«Quando parlo del fatto che se cadi ti fai male e all’ospedale non c’è posto, e ci puoi morire presto. Rino così è morto, cadde dalla moto e l’ambulanza non arrivò in tempo». E m’ero preso pure la cazziata…
Le cassette erano La storia completa di Mola o qualcosa del genere. Le volevo comprare, insomma dare una mano, avevo capito che la situazione non era delle migliori. Gli chiesi: «Quanto costano?».
E lui: «50mila lire».
«Alla faccia! Enzo pe’ ‘na cassetta è un po’ troppo».
Contrattammo e mi presi le cassette e il libri. Alessio ‘o prufessore mi fece capire che dissentiva. Insomma Enzo non è che aveva presente il valore dei soldi, in negativo e in positivo. Ne ho avuta conferma qualche anno dopo, quando mi chiamò da Bologna un tizio di una produzione cinematografica. Facevano un film sul ’77 e volevano mettere il brano di Enzo, anzi dare proprio il titolo al film, ma mi spiegò che Enzo gli aveva chiesto «nonsoquanta» milioni.
Mi disse: «Tu lo conosci, parlaci tu».
Io lo feci rintracciare dagli amici di Mola e cercai di convincerlo. Non so come andò la trattativa, ma qualunque cosa gli abbiano dato sarà stato sempre troppo poco. Qualche anno fa l’ho visto sul palco del Primo Maggio, al concertone della Triplice, e mi è venuta un po’ di tristezza a vederlo lì, lui che non voleva suonare meno di otto ore perché gli operai lavorano otto ore, proprio nel posto dove i sindacati si sono venduti il vendibile della vita dei salariati.
Pensavo a Bonanni e a Angeletti e al testo di Lavorare con lentezza, agli incidenti sul lavoro e a Marchionne, e ragionavo sul fatto che il padrone le nostre canzoni le digerisce sempre bene, e ce le ricaca sempre in testa.
Enzo rimane quello che saliva sugli autobus e faceva l’autoriduzione del biglietto, per principio, da solo, per avere l’occasione di parlare di ingiustizia sociale e sfruttamento. Un folle compagno, un grande militante e un surreale poeta proletario, che ha ricevuto dalla compagneria molto meno di quello che alla compagneria ha regalato.
Buon viaggio Enzo, una sedia la troverai pure dove stai adesso.
E il biglietto di sicuro non l’avrai voluto pagare.
Flaviano De Luca

 Una sedia parlante contro l’ingiustizia

«Gli Stati Uniti hanno ucciso gli anarchici Sacco e Vanzetti con la sedia elettrica, ai tempi perciò decisi di riscattare questo povero oggetto contadino, la sedia, e di farlo diventare il mio mezzo d’espressione, il mio strumento preferito, schierandomi pure contro la disumanità della pena di morte». Così parlava, tanti anni fa, Enzo Del Re, ultimo cantastorie radicale, un personaggio unico e irriducibile, molto noto nelle battaglie politiche degli anni settanta, un autodidatta rivoluzionario che si definiva un cantantediprotest-autore o operaio dell’arte. Faceva così: giungeva nel luogo del concerto e chiedeva una qualunque sedia che cominciava a percuotere, tenendo la parte piatta tra le gambe, creando il ritmo che accompagnava il suo canto e aiutandosi con schiocchi della lingua sul palato, aprendo e chiudendo la bocca. Il suo cachet era la giornata di lavoro di un operaio metalmeccanico (rifiutava i contributi previdenziali, accettando solo una piccola quota per le medicine), la sua missione «battersi in favore della classe lavoratrice», i suoi concerti delle straordinarie maratone di canzoni, quasi declamate con una voce perfettamente intonata, calda e avvolgente, pieni d’ironia e di giochi di parole che si mescolavano perfettamente con la scansione, secca e omogenea, del pezzo di legno.
Figlio di un fruttivendolo, aveva studiato al Conservatorio di Bari ma presto l’aveva abbandonato, virando verso l’utilizzo di materiali poveri. Dopo l’alluvione di Firenze del 1966, durante i concerti per gli Angeli del Fango, conobbe Antonio Infantino e con lui incise il suo primo disco, Ho la criniera da Leone (perciò attenzione), edito dalla Ricordi. Suonava sedie, tumbe e altre percussioni ma faceva anche da seconda voce in molti brani.
Grazie al suggerimento di Nanni Ricordi, entrò con Antonio Infantino nello seconda edizione dello spettacolo Ci ragiono e canto della compagnia Nuova Scena di Dario Fo. Debuttarono nel 1969 alla Camera del Lavoro di Milano con due brani di straordinario successo e composti insieme allo stesso Dario Fo: Povera gente ed Avola. Nel frattempo continuava la collaborazione con Antonio Infantino, insieme al quale registrò anche un disco per la campagna elettorale del Pci del 1968, quattro brani incisi dentro la sede nazionale di Botteghe Oscure. Insieme si esibirono nel cabaret milanese di Enzo Jannacci e al FolkStudio.
Dal 1973 girò da solo l’Italia delle camere del lavoro e delle case del popolo, delle scuole e delle fabbriche occupate per i concerti organizzati dai Circoli Ottobre di Lotta Continua. Cantò la rivolta di Avola, l’uccisione di Tonino Micciché, le lotte degli studenti e degli operai, brani tradizionali e composizioni originali finite in un disco, un ellepì con la copertina gialla, titolo Il banditore, che si era registrato e stampato da solo senza etichetta discografica nè data (e veniva venduto al pubblico militante dei suoi concerti). L’altro, ancora precedente, si chiamava Maul, il nome in dialetto pugliese di Mola, la città dove era nato nel 1944 e dove si era ritirato all’inizio degli anni ’80, ormai dimenticato e fuori dai circuiti. Negli anni novanta ha prodotto due musicassette con il titolo di Canzoni di lotta contro i nemici dell’8 marzo e un cofanetto di 4 musicassette, La leggenda della nascita di Mola (un’opera colossale, durata cinque ore e mezza). Entrambi contengono brani in dialetto molese, incentrati sul carattere identitario della storia locale e sui prodotti della terra e del lavoro. Ogni tanto si esibiva, con indomito carattere e ferrea determinazione, in svariate feste popolari dell’entroterra barese. Una di queste situazioni è poi la base del videodocumentario, Io e la mia sedia, di Angelo Amoroso d’Aragona del 2010 (ma Del Re si era già raccontato in Le storie cantate- viaggio tra i cantastorie di Puglia, il mediometraggio di Nicola Morisco e Daniele Trevisi, del 2006).
In questi anni Duemila era tornato sotto l’occhio dei media dapprima per il film di Guido Chiesa, Lavorare con lentezza, del 2004, uno dei suoi pezzi più famosi che divenne sigla della bolognese Radio Alice, uno dei punti di riferimento del movimento del ’77. Poi l’anno scorso, il risarcimento ultratardivo per un artista che il lavoro l’aveva cantato, discusso e analizzato per tutta la vita («Adoro il lavoro ma detesto la fatica» uno dei suoi classici aforismi) sul palco del Concertone del Primo Maggio a Piazza San Giovanni, invitato da Vinicio Capossela, dove incendiò facilmente l’enorme platea eseguendo proprio Lavorare con lentezza e Tengo na voglia ‘e fa niente («Chi m’ha mis’in catena,/passa a vita in vacanza,/io fatico e fatico/e passo pure pe strunz:/vaffanculo alla fatica/e a chi la vuole») presentandosi col suo berrettino rosso da puffo, la barba lunga, il farfallino azzurro al collo (e persino un sacchetto di tela al braccio, coi suoi effetti personali) ma intrattendo il pubblico con i suoi aneddoti e incatenandolo-incantandolo con la carica evocativa della sua voce. Anche i Têtes de bois lo ospitarono in una tappa del tour di Avanti Pop e poi il Premio Tenco gli consegnò il riconoscimento alla carriera. Enzo Del Re, in dialisi da qualche anno, viveva con la pensione sociale di 300 euro al mese, continuando a rifiutare ogni compromesso. Un saluto a pugno chiuso.
Su Youtube ci sono tantissimi videoclip. Uno dei più strabilianti è Scittrà, un brano di sei minuti dove si evidenzia il legame con le filastrocche popolari pugliesi, col mondo contadino scomparso, con quell’umorismo vicino al nonsense. Scittrà è il grido che si dice al gatto per farlo scappare, quello che lancia una famiglia qualunque al passaggio di un micio nero che sembra voler restare lì, nonostante la mamma si dia da fare con la scopa. La canzone nacque proprio come risposta in musica di Enzo Del Re a Domenico Modugno, l’autore di Musciu níuru (Micio nero), che ironizzava proprio sulla malasorte, sulla cattiva fama portata dai gatti neri. Una sua ennesima presa di posizione a favore di chi è nato nero, debole, povero e indifeso. O forse invece ipotizza una liberazione dal male, dal ritmo alienante, dai pregiudizi con la dolcezza e la caparbietà di una lotta continua.

TESTI Una sua canzone del 1969, scritta con Dario Fo

I migranti di «Povera gente»

Povera gente…vengono dal paese mio due giorni
e una notte in treno… Sempre in treno, le valigie
di cartone i figli, la moglie e ‘sta creatura appena nata
che vomita tutto quello che ha mangiato e qualche volta arriva già morta… Povera gente, arrivano
a Torino, alla stazione c’è il solito imbroglione
che li ingaggia nella carovana, manovale, sterratore,
12 ore senza contratto, giornaliero, un quinto
al procuratore, dormitorio: in 40 tutti in un camerone
300 lire a letto, la mutua nemmeno li paga, lavorare
tanto per campare per non morire.
Povera gente vengono dal paese mio un mese, due mesi: finito! Torna al paese col foglio di via!
da “il manifesto” del 9 giugno 2011

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