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Moebius, un re del segno

Elegante e azzardato come «un fiore che attira le api»

Con un nome d’arte dal fascino intrigante, quello di Moebius, Jean Giraud lascia un segno indelebile nel fumetto internazionale, sia di genere (il western Blueberry, firmato con lo pseudonimo Gir), sia fantascientifico d’autore appunto come Moebius. Ma rinchiuderlo in due soli filoni sarebbe sbagliato e ingrato per chi ha fecondato in ogni direzione l’immaginario disegnato dell’ultimo quarto del XX secolo. Illustratore fine, autore di pietre miliari del fumetto internazionale, influenza discreta nel cinema di fantascienza (Alien e Blade runner di Ridley Scott, Il quinto elemento di Luc Besson), l’artista d’oltralpe il cui alter ego richiama i paradossi grafico-geometrici di Escher, è giustamente ritenuto uno dei principali artefici del rinnovamento del fumetto europeo e mondiale degli anni ’70. Elegante e sofisticato, spettacolare, azzardato, luccicante come acciaio e d’impatto rock duro, punk, metallico, il suo segno s’insinua nell’immaginario post-sessantottino soprattutto sulle pagine raffinate di Métàl Hurlant, la cui prima sconcertante, mostruosa, aliena copertina è disegnata appunto da Moebius. Pseudonimo con il quale per più di 30 anni ha siglato le sue opere più fantastiche e surreali quali Arzach, Il garage ermetico, la saga dell”Incal, mentre per la parte più realistica e concreta, rappresentata soprattutto dal popolarissimo western Blueberry, riservava l’altro pseudonimo di Gir, alias Jean Giraud.
Conversando con me a Napoli una decina di anni fa con aria divertita e trasognata al limite della distrazione, Jean Giraud rideva leggero come le figure di linea chiara che da tempo amava disegnare firmandosi come Moebius. E come aveva fatto anche in precedenti interviste, rispondeva in modo casuale e enigmatico, lasciando come nelle sue storie la possibilità a qualsiasi sviluppo. Di fronte alla domanda se era giunto a un punto d’arrivo o se la ricerca continuava, così rispose: «Non sto cercando nulla. Cerco di aprire le cose che vengono e sono difatti abbastanza passivo. È la stessa cosa per gli incontri e gli amori: sono piuttosto come un fiore che attira le api. Non so, ma veramente non cerco niente. Cerco solo di fare del mio meglio».
Fecondatore dell’immaginario collettivo, a volte poteva dare la sensazione di non controllare tutto ciò che produceva, ma è un aspetto che lui stesso rivendicava: «Senza dubbio, è questo il gioco ed è ciò che lo rende abbastanza puro. C’è solo un’emissione naturale, come una radiazione o un raggio di sole. Il sole non cerca di irradiare alcunché, lo fa semplicemente, e non solo in direzione della Terra ma illumina dappertutto. Non c’è alcun merito in questo, ma è una funzione naturale». Non è detto che a un’intervista successiva avrebbe detto esattamente così, e in questo l’apice della sua opera gli corrispondeva.

 
da “il manifesto”

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