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“Non ho furia”

Quando un libro mi colpisce davvero prendo nota di quanto ho letto. Leggendo il libro Amianto, una storia operaia( Agenzia X editore, pagine 141, euro 13.00) di Alberto Prunetti mi è venuto in mente un refrain che ho annotato nel mio diario: Fabbrica dimenticata dalla storia, fabbrica che riporta in vita le storie.

Nel nostro paese si parla spesso di scrittori che si adeguano al mercato editoriale, autori che non propongono mai storie diverse e che scrivono (quando lo fanno davvero, senza interventi di agenti esterni quali ghost writer di ogni sorta, editor alla Gordon Lish e figure simili) guardando al proprio ombelico. Dove collochiamo quei pochi scrittori che scavano dentro il proprio vissuto? Cosa dire di chi in quel gesto di ribellione, la scrittura autobiografica, partorisce una creatura narrativa dotata di un cordone ombelicale composto di materia narrativa allo stato puro?

Alberto Prunetti, traduttore e scrittore nato a Piombino e vissuto a Grosseto nel suo libro racconta la vita dell’operaio Renato (suo padre) e del dramma di un uomo che ha indossato una tuta blu per girare l’Italia da uno stabilimento Ilva all’altro pur di sostenere la propria famiglia. Un lavoro che in cambio di uno stipendio ha offerto zinco, piombo e chissà quante altre sostanze tossiche per l’organismo negli anni di piena attività lavorativa.
Come se non bastasse, a completare l’opera di invasione verso quel corpo già esposto a tanta nocività, una fibra di amianto è entrata nei tessuti vitali come una spina velenosa attraversando in modo silenzioso i polmoni e il torace .
“Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.” diceva J.D. Salinger nel libro il Il giovane Holden, ho provato anche io a chiamare Alberto Prunetti.

Ecco l’intervista che mi ha rilasciato.

 

Mario Schiavone: Si parla del tuo libro sui blog e sugli inserti letterari, cosa difficile per chi pubblica per un piccolo editore. Da lettore, secondo te, cosa ha colpito di più  del tuo libro?

Alberto Prunetti: In effetti non capita spesso che un libro pubblicato da un piccolo editore di aria antagonista riesca a sollevare questo interesse nelle pubblicazioni mainstream e nel web. In parte perché i nodi di bottiglia distributivi non permettono a questi libri di diventare oggetto di un dibattito pubblico che non sia di nicchia. Sicuramente ci sono tre punti di forza nel libro: la flagranza cronologica con un problema sociale che sta diventando impellente, ovvero il picco delle morti per tumori professionali correlati all’amianto che diventerà purtroppo epidemia (se non genocidio) nei prossimi anni; il fatto che il libro, qualsiasi sia il suo genere (romanzo, giornalismo narrativo, autofiction), è scritto dal figlio di una vittima del lavoro in fabbrica; certe caratteristiche stilistiche del libro, pensato nel tentativo di riportare in penna un’epopea popolare proletaria con toni non necessariamente vittimistici ma anche eroicomici. Tutte queste cose sono legate, e l’ho già detto altrove: ho scritto Amianto in questo modo perché sono vissuto e cresciuto dentro al mondo operaio che descrivo e l’ho fatto adesso non per fare un instant book (mentre scrivevo il libro, prima della sentenza eternit, pensavo di essere solo… non mi rendevo pienamente conto delle dimensioni del problema) ma perché è adesso che stanno morendo gli esposti all’amianto e alle altre sostanze nocive inalate nel corso dell’attività professionale degli anni ’70, ’80, ‘90. La realtà operaia non è vista dal di fuori, furbescamente, ma da dentro.

M.S. La storia che racconti nel tuo libro non è frutto di ricerche, ma è parte di una rielaborazione del vissuto personale. Quanto ti è costato scavare nei ricordi e accettare questa storia che hai deciso di raccontarci?

A.P. Tanto, nel bene e nel male. Ricordare e farmi ri-raccontare è stato a tratti doloroso, a tratti è stato veramente catartico. La scrittura ha fatto da sutura di vecchie ferite. Scrivere, per chi come me non frequenta il cimitero, è stato un modo per togliere la ruggine del tempo dalla memoria e rielaborare un lutto. Ma è stato anche un modo per salutare lo spontaneismo operaio, l’ignoranza ruvida, il calore umano e la solidarietà del mondo popolare, della provincia, del mondo dei subalterni, dei nostri vecchi in tuta blu. Anche perché il libro parla all’inizio degli operai degli anni Settanta e poi finisce per descrivere la vita di un precario che fa un lavoro intellettuale ai nostri giorni. Condizione operaia e precariato qui sono legati come le due facce della stessa medaglia e alla base c’è un vissuto fatto di frustrazione, disagio e malattia. La storia di mio padre e la mia.

M.S. Mille mestieri diversi ma anche l’autore di libri e il traduttore. Considerati i diversi lavori che hai svolto fino ad oggi, qual è il ruolo in cui più ti ritrovi a tuo agio in questa Italia dei precari ad ogni costo?

A.P. Nei panni precari ci si sta sempre male, non importa che si lavori con la penna o con le mani. Nel mio caso il disagio di un lavoro intellettuale è fisico (ho una tendinite ai polsi, soprattutto il destro, per la battitura da tastiera: non è un problema di stress psicologico ma un malanno ai tendini derivante dall’attività professionale, e non ho diritto a niente dall’Inail). Di lavori ne ho fatti tanti, dalla pulizia dei cessi alla scrittura di voci di un’enciclopedia anglosassone. Boh, il problema è che non vedo vie d’uscite e comincio a non essere più un giovane precario. Sono alla soglia dei quarant’anni, non ho più voglia di andare a insegnare italiano per quattro spiccioli in continenti lontani, i ritmi si allentano… la piaga del precariato va spezzata perché sta rendendoci la vita impossibile. Ci vogliono contratti duraturi e la possibilità di un reddito sociale minimo per i periodi di disoccupazione.

M.S. Spariamola grossa, così come vuole certa critica letteraria nostrana: Se la scrittura non salva niente  e nessuno, se la letteratura è inutile perché non incide sul reale… Perché scrivere ancora oggi?

A.P. Non sono d’accordo. Scrivere serve e come. La scrittura certo può essere un modo per contemplarsi l’ombelico, e allora tanti saluti, non è il mio mondo. Ma se la scrittura può servire a dare l’allarme, a illustrare un pericolo sociale, a dire di quale pasta è fatta la vita della gente che vive al di fuori dei salotti letterari o dei talkshow del pomeriggio… allora viva la scrittura. Certo se la scrittura è un gioco di rinterzo delle macchine di editing che rielaborano plot illusori sulla “condizione operaia” o sui “giovani precari”, allora si va poco lontano. Ma se nella scrittura si tentano strade diverse (io ad esempio ho anche provato a ridare senso agli appunti sindacali di un operaio come mio padre che lamentava i rischi nel cantiere della raffineria in cui lavorava)… allora la scrittura serve a qualcosa e ha una sua importanza sociale. Me ne rendo conto quando parlo del pericolo dell’amianto soprattutto a giovani che non sono mai stati in cantieri, che non hanno mai fatto lavori di idraulica o muratura. I vecchi operai sanno quanto l’amianto sia pericoloso ma i giovani universitari, che stanno in case con canne fumarie in eternit, non ne hanno idea. C’è un lavoro enorme da fare e la scrittura può aiutare. A volte può fare di più un libro narrativo, con la sua potenza emotiva, che una campagna sociale istituzionale che cala dall’alto e non commuove nessuno perché non ha aderenza con il vissuto.

M.S. Quale sarà il tuo prossimo libro? Ti va di dirci a cosa stai lavorando?

A.P. Non lavoro mai a un solo progetto di scrittura ma a più progetti assieme, che poi si concretizzano lentamente. Non vivo di libri ma di tanti lavori (anche editoriali, come traduttore) e scrivo nel tempo libero, molto lentamente. In teoria ho una serie di racconti sui mestieri precari e uno scritto di fantascienza nel cassetto… si vedrà che cosa arriverà prima in tipografia. Non ho furia.


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