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“Il mio nome è Nedo Ludi”, una recensione

Il calcio non è una metafora dei cambiamenti “repressivi” avvenuti soprattutto in Italia negli ultimi 30 anni, peraltro in quasi totale assenza di conflitto sociale “aspro”. Il calcio è stato il terreno su cui sono stati inventati e sperimentati una enorme serie di strumenti – miltar-polizieschi e giuridico-normativi – utili  a disciplinare, schedare, immobilizzare masse umane aggregate in modo poco più che casuale. Oltre che, ovviamente, un luogo di formazione del consenso politico spoliticizzato.

Non è un paradosso che la vittoria della “libertà” sul “socialismo reale” sia sfociata della società dei divieti multipli. Dal calcio al governo amministrativo del teritorio, qualunque omuncolo temporaneamente in possesso del potere ha fatto ricorso ai “divieti” per far vedere la propria capacità di governare. Pensate ai sindaci leghisti, al muto padovano di Zanonato, la furia con cui è stata incentivata la”produzione di contravvenzioni”, ecc.

Nel calcio moltiplicazione dei capitali e incremento della “disciplina” sono andati di pari passo, giustificandosi a vicenda, come in un laboratorio per oltre venti anni depurato di altre condizioni a contorno (altri radicalismi, altre dinamiche conflittuali di massa, ecc). Questa recensione prodotta dai compagni fiorentini di CortoCircuito ci sembra utile per ripercorrere brevemente il modo di formazione di un dispositivo repressivo di carattere generale (estensibile insomma a tutti gli ambiti, comesi è potuto verificare con la pioggia di “fogli di via” contro il Movimento No Tav) per pure ragioni di profitto.

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Nedo Ludi è un giocatore di calcio, stopper di razza, difensore d’altri tempi. Nedo Ludi è un professionista che gioca in serie A, ma non è un campione (o un “top player” come si usa dire oggi). Nedo Ludi guadagna bene: 60 milioni di lire nel 1989, ma non è certo una star, né a mai fatto il “testimonial” di qualcosa ( probabilmente neanche sa cosa voglia dire “testimonial”). Nedo Ludi nasce in una famiglia operaia e comunista, a Montelupo fiorentino, tra Empoli e Firenze. Nedo Ludi è un “uomo vero” nato per ingaggiare epiche battaglie da “uomini veri” contro i centravanti avversari, il suo lavoro è questo: appiccicarsi al numero 9 avversario, non dargli respiro, non farlo segnare. Nedo Ludi è un ragazzo ingenuo e non si accorge di quello che gli capita intorno. Il calcio è stato infestato da una nuova “specie”, che darwinianamente soppianterà la vecchia, quella a cui Nedo appartiene. È il tempo dei grandi predicatori del “nuovo calcio”, capitanati da quell’Arrigo Sacchi che aveva appena portato la Coppa dei Campioni a Milano, in casa Fininvest. È il tempo del “gioco a zona”, della “mentalità offensiva”, dell’“intensità di gioco”, del “progetto di squadra”, di tante parole che Nedo Ludi, stopper di razza, non capisce, abituato a mordere le caviglie del numero 9 avversario, senza tante storie né discorsi. Nedo Ludi deve sopravvivere, deve lottare per la sua sopravvivenza. Nedo Ludi è Ned Lud, il mitico fondatore del movimento luddista, e come lui è costretto a sabotare la macchina che riduce i “veri uomini” a meri ingranaggi della macchina

 Il mio nome è Nedo Ludi è un romanzo uscito nel 2006, scritto da Pippo Russo, giornalista sportivo e docente di sociologia presso l’Università di Firenze. Nella storia l’autore mescola elementi di fantasia in un contesto reale: quello dei grandi cambiamenti che investirono il calcio come gioco e come industria tra gli anni ’80 e ’90.

 

La nascita del cosiddetto “calcio moderno” è un fenomeno che è stato analizzato principalmente dal punto di vista del pubblico, dei tifosi, degli ultras in particolare.

 

L’inizio degli anni 90 è anche lo stesso periodo in cui le televisioni entrano nel mondo del pallone. Con la vendita dei diritti tv si ha un’immissione di capitali senza precedenti nell’industria del calcio, che diventa così uno spettacolo troppo importante (poiché immensamente remunerativo) affinché si possano lasciare indisturbati quei rompiscatole degli ultras che non cessano un secondo di contestare società e allenatori, di aspettare fuori dagli allenamenti giocatori non considerati degni di “indossare la maglia” e di fare a botte ovunque. I ragazzi delle curve sono gli unici a rifiutare il grande circo miliardario sviluppatosi attorno a un gioco che sentono appartenere a loro e sul cui palcoscenico rivendicano il diritto a un protagonismo incompatibile con le esigenze di uno spettacolo televisivo “per famiglie” e quindi vendibile. I fatti di piazza Savonarola dell’estate del 1990 sono esemplificativi di quanto detto.

 

Del 1989 infatti è quella legge poliziesca che introduce il daspo per chi sia anche solo sospettato di aver commesso un reato, o anche solo un’irregolarità, dentro o fuori lo stadio, durante, prima o dopo la partita. Da lì ha inizio quel delirio repressivo che troverà il suo culmine nel decreto Amato del 2007 (proibizione di tamburi, fumogeni e megafoni e introduzione della censura preventiva sugli striscioni) proseguendo con quell’abominio giuridico che si chiama Tessera del tifoso.

 

Rispetto a questo scenario, su cui si è detto e ridetto, Il mio nome è Nedo Ludi aggiunge degli elementi ulteriori spostando il focus su quegli stessi calciatori che sono spesso visti come dei beneficiari del “calcio moderno,” grazie al quale sono diventati ricchissimi protagonisti dello star system. Alle grandi trasformazioni che avevano luogo intorno al campo di gioco però si accompagnò una rivoluzione tutta interna al rettangolo verde che per molti professionisti del pallone fu tutt’altro che indolore. Si opponevano allora due visioni di calcio: una “tradizionalista” e una “innovativa” che, semplificando, si rifacevano la prima al gioco a uomo, la seconda al gioco a zona. Non si trattava però solo di una diversa tattica di gioco, bensì di una vera rivoluzione culturale in cui i calciatori dovevano subordinare le proprie capacità tecniche individuali ai meccanismi della squadra che, sotto la guida dell’allenatore “offensivista” e “innovatore”, doveva muoversi perfetta come una macchina. I ruoli del vecchio calcio diventano così obsoleti: lo stopper, il libero, il mediano marcatore, che siano “brocchi” o buoni giocatori, semplicemente non servono più, o ti adatti o sei fuori.

 

Nedo Ludi si trova così ai margini della squadra, incapace di adattarsi a quei movimenti di gioco che castrano la grinta e l’estro individuale del suo essere calciatore. La nuova cultura calcistica se da un lato esaltava il valore del collettivo rispetto a quello dell’individuo, dall’altra mirava a rompere quei legami di rispetto e solidarietà che si formavano all’interno dello spogliatoio. L’unico interlocutore diventa l’allenatore, l’oracolo del nuovo calcio, il profeta di quel concetto astratto che è il progetto. Un po’ come succede nelle grandi aziende dove il fare team, occulta il reale rapporto di subordinazione individuale al capo e a quell’entità astratta che è l’azienda stessa.

 

Nedo Ludi, tuttavia, essendo un “vero uomo” non poteva non ribellarsi a tutto ciò. In seguito all’incontro con uno studente di filosofia marxista, fuoricorso e sociopatico prende coscienza della propria situazione e, immedesimandosi in Ned Lud decide che è tempo di prendersi la propria rivincita, è tempo di sabotare la macchina del gioco a zona…

 

 

Il mio nome è Nedo Ludi è un romanzo gradevole che ci sentiamo di consigliare in primis agli appassionati di calcio. L’unica grave pecca è un epilogo retorico, lacrimevole, assolutamente inutile ai fini della storia e in cui la prosa perde quella sobrietà che l’aveva contraddistinta, ma fatta eccezione per quest’ultime 30 pagine, vale sicuramente la pena di esser letto.

da inventati.org/cortocircuito

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