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Repubblichino, Numa, non repubblicano!

E’ vero, un giovane che si fa sedurre dal fascismo in tenera età può anche cambiare idea… Il problema è quando non la cambia affatto, ma diventa un “autorevole” cronista di un giornale nazionale e, ad un certo punto, si candida a “perseguitato dai terroristi vicini ai No Tav”.

Questa illuminante recensione di un suo libretto giovanile, effettuata da “critici” appartenenti a ben tre sezioni dell’Anpi nel territorio di Torino, mette in luce non solo “l’empatia” del giovane Numa con i repubblichini di Salò. Come notano gli arguti lettori, “E’ interessante e significativa la sua fascinazione per le spie. A spie, infiltrati e doppiogiochisti è dedicato un intero capitolo da cui sprizza malcelata simpatia per chi aveva quel ruolo e soprattutto per chi abilmente, furbescamente se l’è cavata. Personaggi che gli ispirano evidente ammirazione e, chissà, desiderio di emulazione? Le voci insistenti nell’ ambiente giornalistico torinese sul ruolo del Numa sembrano trovare in questo atteggiamento verso protagonisti del passato un qualche riscontro, fragile ma trasparente“.
Spie, infiltrati, doppiogiochisti… L’Italia del potere non cambia mai. E’ di alcuni giorni fa la denuncia effettuata dal segretario del Prc, Paolo Ferrero, su inflitrazioni dei servizi all’interno del suo partito, con l’evidente intento di demolirlo, più che di “spiarlo”. E’ dell’altroieri il presunto “pacco bomba” che il signor Numa avrebbe ricevuto da ignoti attentatori; i quali, come non pensarlo?, potrebbero benissimo essere gli stessi “Spie, infiltrati, doppiogiochisti” che a lui stavano e stanno tanto simpatici… Come potrebbe trattarsi – in effetti – di una sigla tanto reale quanto la sua (inesistente) casa editrice d’allora…

La seconda sottolineatura notevole è sul linguaggio usato per connotare i partigiani, sempre “delinquenti” o comunque riprovevoli, abietti, immotivamente “violenti”; il culto della “legalità” (quale “legalità” esiste in una guerra civile? quella del più forte su un certo territorio e in determinate condizioni, anche temporanee) infilato come una camera di tortura nel ben mezzo di una guerra di liberazione che è stata indubbiamente anche una guerra civile, un recupero dell’orgoglio di un popolo a lungo tenuto sotto la coltre corazzata del fascismo. Ma è palese che per il giovane Numa il fascismo – sotto occupazione tedesca! – era “lo Stato”, mentre i patigiani incarnavano giustamente “l’antistato”.

Ma è certamente la denuncia del linguaggio usato da Numa (e dalle sue fonti “fascistissime”  – La Gazzetta di Savona e naturalmente Giorgio Pisanò – da cui attinge e si nutre compulsivamente) il dato che più unisce questo indegno libello “giovanile” alla non più degna produzione “matura” del Numa: non cambia mai, sia che parli dei partigiani, si che narri le gesta del movimento No Tav.

Sarà anche paradossalmentte paradossale, un effetto involontario dell’odio che lo acceca, però verrebbe da dire: “grazie Numa”. Grazie per aver svelato la natura fascista – intimamente fascista – delle operazioni “dello Stato” condotte in Val Susa, il comportamente da truppe di occupazione delle forze di polizia o addiritura dell’esercito lì inviate. Grazie per aver fatto vedere come la retorica della “legalità”, in un ambito di assoluta ingiustizia, è solo propaganda che giustifica la violenza degli interessi privati (i costruttori del Tav) difesi da uno Stato da operetta. Grazie per aver dato un’inquadratura storica tanto ficcante dell’opera condotta dalla Procura di Torino, guidata dall’ex monaco guerriero Caselli…

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Il libro rivelatore di un neofascista redattore a La Stampa di Torino
La Stagione del Sangue
di Massimo Numa
Ed. la Ricerca, 1992
Riceviamo e malvolentieri leggiamo questo libro inviatoci da mano amica. In qualche modo giunge a proposito, visto che di recente sono stati perquisiti compagni degli ANPI valsusini con annesso sequestro di Tshirts e bandane e, in particolare su La Stampa, pubblicazione non autorizzata di fotografie di associati ANPI definiti nei titoli e nel testo terroristi e sovversivi. Dopo aver letto questo libro non ce ne stupiamo. Perchè l’autore è quel Massimo Numa che da anni imperversa con inusuale veemenza, se non autentica acrimonia, dalla redazione cronaca della Busiarda contro ogni scintilla di lotta sociale: No Tav, anarchici, centri sociali, immigrati, oppositori e resistenti vari di cui la nostra povera Italia fortunatamente pullula . Ora capiamo perchè.
Qualche dato significativo. Il libro è stato pubblicato a spese dell’autore da una casa editrice inesistente. Attualmente è reperibile su circuito SBN solo in due sedi ma in compenso è segnalato su diversi blog di cui diremo in seguito. Si suppone quindi che ne siano stampate pochissime copie non destinate in libreria.
La dedica chiarisce subito da che parte sta l’autore: è per un marò del Reggimento San Marco della Rsi, ucciso il 26 Aprile 1945 in piena insurrezione. Nell’introduzione, un coacervo di concetti arruffati, Pier Paolo Cervone, ex sindaco di Finale Ligure, giornalista e biografo del generale repubblichino Enrico Caviglia, si arrischia a citare Norberto Bobbio per giustificare il senso dell'”opera”, un’opera che possiamo benevolmente definire un tentativo maldestro di cavalcare la storiografia revisionista ma che è in realtà un libro prettamente fascista che si propone di dar voce al rancore dei vinti di allora rivisitandone con malcelata pietà di parte il vittimismo per le esecuzioni subite prima, durante e dopo la sconfitta.
Lo stile dell’autore è riconoscibile: quel dire e non dire, l’ insinuare, quell’ambiguità tipica di chi disinforma e manipola i fatti. Si finge equidistanza ammettendo qua e là la ferocia dei fascisti, le
violenze, le torture, le rappresaglie e gli eccidi ma l’enfasi si sposta inesorabilmente e comunque sulla violenza giustiziera dell’altra parte descritta come anche più efferata, motivata spesso da desideri di vendetta personale quando non di rapina o addirittura da corruzione, furia omicida, arbitrio, estorsione o perversione dei singoli, “banditismo tout-court”, “…non disdegnavano la rapina e il furto…”. Qui e là ricorrono domande e risposte retoriche: “basta questo a giustificare l’esecuzione di decine di giovani?”; oppure “…. E’ sufficiente questo delitto assurdo per infangare la polizia partigiana? Sarebbe troppo facile dire di si'” o dichiarazioni rivelatrici: “…è difficile non dare ragione a Pisanò e altri…” lasciando il lettore a domandarsi chi potranno essere quegli “altri”.
L’equidistanza cede comunque nei dettagli: le unità partigiane sono definite “esercito irregolare” a fronte delle opposte “Forze Armate Repubblicane”, i partigiani sono sovente “assassini e grassatori” quando non decisamente rapinatori, i fascisti diventano “i nemici dei partigiani”, i collaborazionisti sono “spinti da motivazioni ideali”. Saranno stati anche violenti e deprecabili, i fascisti, ma ecco citati episodi che minimizzano: un milite fascista processato dalla locale Cas per presunte torture con la corrente elettrica che viene condannato “a pene mitissime” perchè si accertò che il cavo da lui utilizzato era telefonico; al noto torturatore Zunino si attribuisce, tramite la testimonianza di un arrestato riconoscente, soltanto “un ceffone”, stessa pena inflitta agli antifascisti da parte di quei buontemponi della Compagnia della Morte savonese che, tra un ceffone e l’altro, denunciavano ebrei e renitenti.
Il testo è generalmente sgrammaticato, spesso anche a debito di sintassi. Vi abbondano superficialità e contraddizioni come “Nei giorni …precedenti all’insurrezione si erano già verificate le prime uccisioni al di fuori della logica dello scontro armato” o come la “presunta fede fascista” della famiglia Biamonti, giustiziata nel maggio 1945, che però aveva un figlio ufficiale nella San Marco e che ospitava abitualmente ufficiali tedeschi e repubblichini. Tra questi, la vox populi elenca “il marchese Di Neghelli, capo delle Forze Armate della Repubblica” fornendo del resto una data precisa, il 13 Marzo 1945. Risulta tra le righe che fu proprio la popolazione di Legino a denunciare la famigliola come attivi collaborazionisti che “ridevano e scherzavano” quando le Brigate Nere rastrellavano il paese.
Alte espressioni di rammarico sono spese per le esecuzioni di “fascisti moderati” come Giobatta Rambaldi, fiduciario del fascio, nei giorni della Liberazione o di figuri come Antonio Padoan, sacerdote repubblichino noto a Imperia per le sue prediche “contro la guerra civile” ucciso dai partigiani l’8 maggio 1944, il cui nome viene adottato da una Brigata Nera locale. Degli esecutori partigiani di un reparto di marò del San Marco addetto ai rastrellamenti e catturato con le armi in pugno, si riferisce con partecipazione personale “che la pubblicistica di Salò, non senza qualche ragione, ha definito boia.” Quando si dice il distacco dello storico…
Significativo il breve elenco delle fonti a cui il Numa attinge: prevalentemente La Gazzetta di Savona (gestita fino alla liberazione direttamente dalla locale Federazione Fascista e dalla Brigata Nera Briatore), il Corriere Mercantile solo a partire dal 1949, saltuarie citazioni da fogli locali o di parte (Nuovo Fronte, quindicinale del msi; il trimestrale La Legione, ecc.), naturalmente Giorgio Pisanò dalla cui Storia delle Forze Armate della Repubblica Sociale l’autore copia cronache e definizione di “pistola silenziosa” per gli inafferrabili giustizieri di ex repubblichini nei primi anni del dopoguerra,  qualche verbale giudiziario, qualche testimonianza diretta, quasi tutto senza note o riferimenti. Fine. La parte predominante è affidata alla vacuità più totale: si dice, si pensa, siamo convinti che, forse, si è mormorato con insistenza…
Naturalmente il piatto forte dell'”opera” è la denigrazione costante delle forze resistenti, il cui “nerbo era costituito da ex San Marco” o da “sbandati o disertori della Rsi”, covi di spie, delinquenti, antifascisti dell’ultima ora e infiltrati, “bande slegate da un comando generale…con le frange sfuggite ad ogni controllo…”, “schegge impazzite…a cui lo stesso pci…faticò ad imporsi”; tanto per gradire e per sfrucugliare sensibilità attuali, si insinua addirittura che i partigiani fossero razzisti pescando in un libello di ricordi di un sappista, in cui i militi repubblichini erano descritti “meridionali…volgari…con l’accento del Sud”. In chiave complottistica, per non farsi mancare nulla, abbondano oscuri accenni a “verità scomode e imbarazzanti”, a “personaggi rimasti nell’ombra”, a un’omertà imposta allora col terrore che dura ancora ai nostri giorni, a testimoni che ancora oggi hanno paura di parlare (“…l’identità di questa persona la terremo celata…perchè si ritiene, a torto o a ragione (qui si vede la stoffa dello storico…), ancora in pericolo…un’ipotesi da non sottovalutare”). I partigiani come la mafia, insomma: “…Oggi ci sono parenti di vittime che tacciono ancora, parlano di ritorsioni, di timori per i figli e i congiunti, tanto da chiedere all’autore di questa ricerca di tacere i loro nomi, di non permettere a ‘loro’ di risalire ai superstiti”. L’attacco più pesante è portato con il caso della giovane Giuseppina Ghersi, seviziata e uccisa da ignoti insieme al cognato malavitoso il 26 Aprile 1945. Se la descrizione stessa dei fatti suggerisce l’azione di balordi a scopo estortivo, per Numa gli ignoti si trasformano poche righe dopo in “partigiani”. La cronaca fornita è contradditoria: in un primo tempo il luogo della morte è una via cittadina, nella pagina successiva diventa il cimitero di Zinola. A tale vaghezza si aggiunge la circostanza, corroborata da una testimonianza altrettanto imprecisata di “una parente”, che la ragazza fosse stata arrestata e rasata come collaborazionista il giorno precedente alla morte. Un episodio orribile nell’insieme che non fu mai chiarito nemmeno in tribunale ma che il Numa e la pubblicistica neofascista non esitano ad attribuire alla responsabilità dei partigiani.
E’ interessante individuare i fili conduttori nella mente dell’ autore. Aiutano ad interpretarne, anche alla luce attuale, la psicologia e gli scritti.
1. La reiterazione del concetto di pretesa legalità in un contesto di guerra combattuta e di comprensibili strascichi seguiti alla Liberazione: è costante il riferimento a processi mancati, a testimonianze o prove insufficienti, alla scarsa osservanza delle istruzioni del Cln in materia di trattamento dei prigionieri, a un “humus di illegalità”, a “circostanze illegali”. Si pretende un’anacronistica osservanza delle norme e delle leggi (quali?) da una situazione come quella bellica  e immediatamente post-liberazione con una visuale che esclude l’elemento umano e sociale di quei
giorni.
2. E’ evidente la propensione autogiustificatoria dell’autore a “stare dalla parte dell’autorità”, delle istituzioni, mistificandone la natura nel contesto bellico. Per Numa, ieri come oggi, è importante l’omologazione (lo Stato, i partiti, ecc.); tutto quanto ad essa sfugge è negativo: cosi’ le bande partigiane non identificate (“schegge impazzite”, “formazioni fuori controllo”) a fronte della Repubblica Sociale, come i protagonisti attuali delle lotte sociali (anarchici, centri sociali, No Tav, antagonisti, il dissenso non riconoscibile, ecc.) a fronte dello Stato e delle Forze dell’Ordine. Insomma, l’importante è la divisa. Nessuno gli ha mai spiegato che la Rsi non è mai stata  un’autorità riconosciuta ma un’entità fittizia o che lo Stato e certe sue articolazioni o comportamenti  non sempre sono simboli di democrazia compiuta. A prescindere, lui sta dove stanno i manganelli.
3. E’ interessante e significativa la sua fascinazione per le spie. A spie, infiltrati e doppiogiochisti è dedicato un intero capitolo da cui sprizza malcelata simpatia per chi aveva quel ruolo e soprattutto per chi abilmente, furbescamente se l’è cavata. Personaggi che gli ispirano evidente ammirazione,
chissà, desiderio di emulazione? Le voci insistenti nell’ ambiente giornalistico torinese sul ruolo del Numa sembrano trovare in questo atteggiamento verso protagonisti del passato un qualche riscontro, fragile ma trasparente.
Volendo tirare delle conclusioni, dopo la faticosa lettura di tale concentrato di pattume fascista, ci limitiamo a riportare l’esaustivo commento dell’Anpi savonese che definisce il Numa “capostipite del revisionismo vittimistico dei vinti, in chiave neofascista e anticomunista” e ricorda che la Resistenza e la popolazione inerme sono stati “…la prima vittima dell’atroce strategia di sterminio perseguita dai nazisti e dai repubblichini di Salò; per questo non esiste confronto possibile tra le efferatezze e le stragi, gli orrori inflitti dai nazifascisti e le durezze della guerra partigiana…Episodi di vendetta e di efferatezza dei partigiani ci furono prima e dopo la Liberazione. Ma risultano fatti limitati di numero, isolati, episodici, frutto di pulsioni di singoli…atti nè incoraggiati nè programmati…a differenza dei Comandi nazifascisti che promossero sino all’ultimo minuto la strategia del terrorismo di massa contro partigiani e inermi cittadini. D’altra parte vendette e rese dei conti dei vincitori sono le conseguenze ‘fatali’ e prevedibili della guerra. E’ ipocrita che i fascisti se ne lamentino…” (Resistenti, n. 250, 2008).

Non possiamo che sottoscrivere tutto questo e concludere segnalando che chi volesse trovare  migliori recensioni di questo libro e commenti favorevoli può cercarli sui siti di Casa Pound, sui blog  “neri” Libero-mente per non dimenticare, Camerataseba.

Cosi’ ora è tutto più chiaro. Viene a questo punto spontanea una domanda: ma cosa ci fa un neofascista dichiarato alla redazione Cronaca (con mandato per le lotte sociali) di un giornale che fu anche di Alessandro Galante Garrone, di Norberto Bobbio, di una Torino liberale e di una borghesia magari conservatrice ma sempre democratica? Direttore Calabresi, come può permettere tale presenza?
Sezione A.N.P.I. “68 Martiri” di Grugliasco (TO)
Sezione A.N.P.I. “G. Perotti MAVM – A. Appendino” Nizza-Lingotto di Torino
Sezione A.N.P.I. “Boris Bradac” di Chivasso (TO)

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