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Interstellar. Le risposte di Cristopher Nolan

Al netto dei temutissimi spoiler, delle presunte incongruenze scientifiche e della smisurata ambizione alla base del film, Interstellar di Christopher Nolan sta spaccando in due critica e fan. Basta farsi un giro sui vari blog e siti di cinema, o sfogliare le ‘recensioni’ dei mostri della critica dei grandi giornali e delle riviste: c’è chi lo adora senza ritegno e chi lo odia senza pietà. Certo, ci sono anche i perplessi e gli affascinati, le posizioni più sfumate ma, in generale, si può dire che l’opera è divisiva assai. E questo è un pregio, senza dubbio.

Per valutare al meglio questo Interstellar bisogna partire dal faraonico budget messo a disposizione di Nolan: 165 milioni di dollari e, per una cifra del genere, i produttori reclamano il diritto di farsi ascoltare dal regista e di gettare la loro – talvolta insopportabile – dose di melassa su tutta la vicenda. Particolari che possono far rabbrividire, ma un film si vende anche così. Quindi non staremo qui a parlare della solfa sull’amor filiale e sull’amor che trascende cinque dimensioni, non staremo qui ad indignarci per un sentimentalismo d’accatto che può diventare per alcuni stucchevole. Diamo per scontato che non ci piace, ok?

Il vero – enorme – punto debole di Interstellar è il suo sforzarsi di dare risposte. Là dove sia il 2001 Odissea nello Spazio di Kubrick sia il Solaris di Tarkovskij non hanno osato spingersi, proprio là Nolan va a infilarsi. Il punto è teoretico: per farla breve, stiamo parlando della volontà di dare risposte a domande immense sul senso della vita umana sul pianeta terra e sul suo futuro, la sua dimensione escatologica.

Interstellar ci prova, e fallisce. Non fallisce male, anzi, ma fallisce. E’ la già citata ambizione di Nolan: Kubrick e Tarkovskij facevano domande suggestive e inquietanti, il regista londinese prova a rispondere. Il problema è che le risposte, per loro stessa natura, sono generalmente banali – la maggior parte sono dei «sì» o dei «no», a pensarci un attimo appena – e Nolan non riesce a salvarsi dall’affidare le verità dell’esistenza a una serie di considerazioni di non altissimo livello e trucchi da sceneggiatore navigato. La visione politica offerta, per di più, risulta un po’ troppo naif, cosa che, in tutta sincerità, non ci si aspettava dal regista dell’ultimo Batman (una lezione sulla Rivoluzione, come ha ammesso anche Slavoj Zizek).

La prima parte del film è ambientata in una Terra ridotta alla fame da una «piaga» che sta progressivamente mettendo in ginocchio l’agricoltura: la popolazione del pianeta è decimata, ormai si coltiva solo mais e le speranze di veder crescere una nuova generazione sono ridotte al lumicino. Allo stesso tempo, i governi hanno deciso di abbandonare gli investimenti nella ricerca e la Nasa è ridotta a un circolo di poche persone che si riuniscono in gran segreto. Il dottor Cooper (Matthew McConaughey), grazie anche alla sua formidabile figliola Murph, viene cooptato per guidare una missione interstellare alla ricerca di altri astronauti mandati precedentemente a cercare un pianeta abitabile in altre galassie. In mezzo a tutto questo, il dottor Brand (Michael Caine) ha pronti due piani per salvare il mondo: il primo prevede la soluzione di una complicata equazione per vincere la gravità e portare tutti gli esseri umani presenti sulla Terra in salvo, il secondo riguarda delle colonie di embrioni da spedire per ripopolare da capo il nuovo pianeta. Così si procede, tra ‘wormhole’ nei pressi di Saturno, buchi neri garganteschi, scontri tra pianeti ghiacciati, onde anomale alte decine di chilometri e diverse puntate che, per essere comprese a fondo, richiedono (almeno) una laurea in fisica teorica.
L’ambizione, insomma, è tanta. E non che Nolan non meriti un’apertura di credito tale da giustificarne le intenzioni. Il problema è proprio che, alla fine, il film dice poco o nulla, insomma, tutto si risolve in una spiegazione sin troppo cerebrale della ghost story interna alla storia. E – sì certo – della già citata celebrazione dell’amor che, da copione, omnia vincit.

In mezzo, tante citazioni: Asimov, i versi di Dylan Thomas, in un certo senso anche Donnie Darko, più diverse sviolinate nei confronti della fantascienza classica e i suoi stilemi. Visivamente, il film è impressionante: effetti speciali da capogiro, una fotografia splendida, una sapienza registica davvero fuori dal comune – d’altra parte, Nolan è un fuoriclasse – e un impianto narrativo che, pur con qualche buco di sceneggiatura, funziona.
Il problema è proprio nell’ambizione di fondo, nella volontà conclamata di fare «una grande opera». E alla fine, date le premesse, è inevitabile rimanere un po’ delusi. Su certi temi hanno già detto abbastanza il seminale La Jetée di Chris Marker, o L’esercito delle 12 scimmie, o Signs di M. Night Shyamalan. Nolan nulla riesce ad aggiungere. Ed è davvero un gran peccato.

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