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Perché American Sniper non è un film “contro la guerra”

Nell’acceso dibattito che ha suscitato l’uscita dell’ultimo film di Clint Eastwood American Sniper, vale la pena analizzare una particolare affermazione del regista[1], fatta propria da diversi commentatori, quella cioè secondo cui l’opera in questione sarebbe “contro la guerra”. Si tratta di un’affermazione controversa perché non mancano elementi per sostenere che American Sniper mostri le atrocità e gli orrori della guerra in Iraq. Cercherò qui brevemente di dimostrare come, nonostante ciò, il messaggio “pacifista” (volendo credere alla buona fede al regista) fallisca clamorosamente l’obbiettivo. 

Innanzitutto è necessario mettere in chiaro che quella cui ricorre Eastwood è una narrazione assolutamente unilaterale. Il film infatti si basa sull’omonima autobiografia di Chris Kyle, tiratore scelto dei Navy SEALS, veterano dell’ultima guerra degli Stati Uniti in territorio iracheno e vera e propria leggenda per l’esercito statunitense. Si tratta di una narrazione unilaterale perché il regista fa sì che il racconto venga filtrato solo e soltanto dal punto di vista del protagonista, senza concedere allo spettatore un’angolazione diversa da cui guardare i fatti. Perciò, stando a quanto ci viene raccontato, la guerra in Iraq sarebbe diretta e giusta conseguenza degli attentati dell’11 settembre 2001 al World Trade Center e al Pentagono, nonostante più di dieci anni di controinformazione e lavoro culturale abbiano dimostrato la totale estraneità del governo iracheno da quei fatti. Nel film non viene nemmeno bisbigliata la parola “petrolio”…    

La parzialità del racconto è imbarazzante poi nella raffigurazione del “nemico”, la popolazione irachena. Edward Said avrebbe certamente avuto parole di fuoco per lo sfacciato orientalismo con cui vengono dipinti gli abitanti di Falluja, ridotti a delatori, approfittatori e banditi – come se non bastasse l’arroganza dei soldati statunitensi, Kyle compreso, nel chiamarli “selvaggi” per tutta la durata del film. A ben vedere, lo spettatore è costretto a guardare i personaggi iracheni da una grande distanza morale, a vederli da lontano e dall’alto, come inquadrati dal mirino telescopico della propria supremazia occidentale. 

Per quanto riguarda gli effetti della guerra sulle famiglie e sugli individui, non si può affermare che American Sniper ne censuri le conseguenze più devastanti, dal dolore per i caduti ai terribili traumi fisici e mentali cui sono costretti a vivere i reduci. Ma per come è costruito il film, la denuncia degli orrori della guerra viene completamente cambiata di senso. Ricapitolando: l’intervento statunitense in Iraq è stato inevitabile per combattere il terrorismo ed esportare la democrazia tra i “selvaggi”; questi, se si ribellano, non sono altro che terroristi fiancheggiatori di Al-Qaida. Ne consegue, perciò, che le stragi e le mutilazioni subite da uomini, donne e bambini sono giustificabili in quanto prezzo da pagare per la pace e la libertà. Questa è la cornice ideologica in cui è inscritta la presunta critica pacifista.    

C’è da chiedersi per quale motivo un film contro la guerra si concentri unicamente sull’esperienza e sul dolore della parte americana: perché non raccontare la tragedia vissuta anche dal punto di vista iracheno? Se davvero l’intento era quello di far riflettere il pubblico riguardo alla sconfitta morale ed etica degli Stati Uniti dinnanzi a tutto il mondo, perché non criticare nemmeno velatamente la politica guerrafondaia dell’establishment americano che, qualunque sia il colore predominante al Congresso, pratica destabilizzazione sistemica in Medio Oriente e tenta in tutti i modi di estendere e armare i confini della Nato ad est della “Nuova Europa”?

Il messaggio che si ricava da American Sniper non sembra quindi un giusto e nitido attacco alla politica statunitense, della quale sono vittime anche i giovani reclutati nei quartieri dormitorio delle metropoli americane, magari con la speranza di una borsa di studio per il college[2] ed un futuro dignitoso. Sembra piuttosto l’esaltazione del sacrificio per la patria, la più classica giustificazione del massacro di intere generazioni sull’altare dell’imperialismo. Per quanto Eastwood si sforzi di esprimere la feroce logica della guerra, non sembra esserci possibilità di riflessione critica durante la visione di un film che parla “alla pancia” del pubblico, che solletica gli animi più violentemente colonialisti e razzisti, e impedisce qualsiasi empatia verso il popolo iracheno.

Di Marco Montanarella (Noi Restiamo)


[1]http://www.lastampa.it/2015/01/26/spettacoli/eastwood-risolve-il-mistero-il-mio-film-contro-la-guerra-adDZC7uEnQXkFS0ukcEXVO/pagina.html

[2]Si rimanda al celebre film-documentario di Michael Moore Fahrenheit 9/11

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