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“Iaccon” Ortoleva: storia di un giovane partigiano

Ai giorni nostri, il revisionismo sembra essere riuscito a imporre una rivisitazione della dittatura mussoliniana e la Resistenza italiana è stata gradualmente sminuita e denigrata finendo per essere additata, al massimo, come una delle parti in gioco del conflitto, alla pari con l’altra. I tempi della barbarie fascista sembrano quasi ricordi lontani e forse “dovremmo sforzarci” come disse Luciano Violante alcuni anni fa, all’atto di insediamento come presidente della Camera, “di capire le ragioni per cui tanti ragazzi e ragazze scelsero di arruolarsi nella Repubblica di Salò” (!).

Ma nell’anno del settantesimo anniversario della Resistenza, a noi di fare questo sforzo, inutile quanto dannoso, proprio non va.

Anzi, ne faremo un altro in direzione opposta, per raccontare la storia  di uno dei tanti giovani partigiani, morti per la patria e la libertà.

Giovanni Ortoleva, questo il suo nome, nasce in un piccolo paesino di montagna, a Isnello, in Sicilia, il 14 aprile del 1921.

Giovane di belle speranze, come tanti altri suoi coetanei, a venti anni finisce per essere arruolato nell’esercito italiano e per partecipare alla grande guerra.

Dopo l’armistizio con le forze alleate, annunciato da Badoglio l’otto settembre del 1943, Giovanni sceglie di andare a combattere insieme alle forze partigiane: si unisce alla 109° Brigata della 12° Divisione d’assalto Garibaldi, tra le più politicizzate e le più impregnate d’ideologia comunista.

Il  suo  campo di battaglia sarà il Piemonte. I compagni lo chiamano “Iaccon”.

Quelli che precedono il 9 marzo del 1945, tra le campagne della pianura Vercellese, sono giorni convulsi. Al gruppo nel quale Giovanni è inquadrato arrivano notizie confuse sulla fine della guerra e sulla resa dei fascisti. I suoi compagni cominciano ad essere meno guardinghi: il clima si fa più rilassato, le tradizionali abitudini e misure di sicurezza cominciano ad assopirsi tra i commilitoni. Così capita che nessuno si chieda chi debba fare la guardia e che una notte, uno dopo l’altro, i partigiani si abbandonino tutti alla stanchezza e al sonno, in un casolare di campagna abbandonato: errore che si rivelerà fatale. Intercettati dai fascisti – complice forse una soffiata – vengono sorpresi ancora sonnolenti e costretti alla resa con facilità. I partigiani vengono divisi in due gruppi, di cui uno viene spedito a Vercelli ed un secondo, di venti persone o poco più, la storia non è stata clemente neanche con i numeri, rimase per essere interrogato. Da quel momento avrà inizio un supplizio che terminerà con il trasferimento a Salussola e la strage perpetrata nel suo municipio, il 9 marzo del 1945. I ricordi di Giovanni sono stati a lungo affidati all’unico sopravvissuto, Sergio Canuto Rosa il “pittore”, questo il suo nome di battaglia: “il primo ad essere portato via per gli interrogatori fu Iaccon, un giovane siciliano. Quando tornò ci riferì che il comandante del contingente fascista addetto alla nostra sorveglianza era un suo compaesano e ne parlava con voce piena di speranza. Qualcuno di noi cominciava ad avere dubbi, in altri nasceva speranza. Poi, infine, all’ultimo colloquio, Iaccon rientrò e ci disse che lui avrebbe potuto salvarsi. Bastava che accettasse di indossare la loro divisa e passare dalla loro parte. Nessuno di noi diceva una sola parola, neppure il nostro commissario di distaccamento. Sapevamo tutti che la scelta che avrebbe fatto sarebbe stata una scelta per la vita o per la morte. Scegliere di morire a venti anni non è facile. Ci guardava ad uno a uno, come se aspettasse una parola, un consiglio. Poi il silenzio fu rotto dalla sua voce colma di pianto: non posso questa è la mia divisa. Siete voi i miei compagni. La scelta era fatta. Di colpo ci stringemmo tutti a lui mentre un nodo ci chiudeva la gola e sentivamo le lacrime che scendevano copiose bagnarci le guance. Eravamo fieri di questo nostro compagno che così lontano dalla sua terra, dalla sua famiglia, aveva saputo resistere al tradimento dei nostri ideali.”

Da lì a breve sarebbe stata compiuta la strage. Le mura insanguinate che furono portate alla luce dopo il 9 marzo raccontano di torture inimmaginabili e di agonie indicibili impresse sulla carne dei “garibaldini” dai fascisti della Montebello, come a voler simboleggiare il disprezzo della vita umana.

 

Il pittore, dicevamo, fu l’unico superstite: coraggioso e spregiudicato nella sua gioventù a ingaggiare una colluttazione convulsa con uno degli aguzzini, proprio pochi attimi prima di essere fucilato e a scappare lanciandosi in una scarpata. Sergio riuscì ad allentare la corda e ciò gli permise di avere le mani libere per colpire il fascista e rinviare l’appuntamento con la morte. Gli altri commilitoni, invece, morirono quella stessa notte. Tra di loro Giovanni, unico siciliano del gruppo, morto a migliaia di km da casa per la libertà e per aver partecipato ad una resistenza oggi spesso offesa e derisa: aveva 24 anni. I loro corpi sarebbero stati seppelliti a Crevacuore, luogo natio di molti dei combattenti della brigata. Negli anni seguenti la loro storia sarebbe stata oscurata. In particolare sulla figura di Giovanni Ortoleva cadde l’oblio, fino a quando venuto alla luce il suo ruolo, il comune del paese che gli diede i natali accolse finalmente i resti cremati di Giovanni nel settembre del 2011, rendendo gli onori ad un suo figlio dimenticato.

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