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I frammenti di realtà di Vizio di Forma

L’ultimo film di Paul Thomas Anderson, basato su una recente fatica letteraria dello scrittore statunitense Thomas Pynchon, è un oggetto difficile da maneggiare. La cifra stilistica di questo oggetto si può riassumere nello spiazzamento, nel disorientamento che provoca in chiunque tenti di arrivare al suo nucleo fondamentale. Durante la visione del film lo spettatore si trova nella difficile situazione di districarsi in una trama che si complica col passare dei minuti, e che mette in discussione ogni passaggio logico. La non facile ‘leggibilità’ dell’intreccio narrativo è ciò che ha fatto più discutere – e forse non a torto.
Vizio di forma è la parodia di un noir classico, sradicato dalle lugubri e piovose ambientazioni notturne delle metropoli anni Cinquanta, e trapiantato nell’assolata California dei Seventies. Nel ruolo d’investigatore, dell’eroe “negativo” in costante conflitto con la Legge, troviamo il detective privato Larry “Doc” Sportello, ironica figura di hippie sconvolto dalle droghe ma capace di grandi intuizioni, come dimostrerà nel film.
Nel corso della vicenda, Doc si assume il compito di risolvere diversi casi, ma ciò che è interessante è che, a mano a mano, noterà che essi sono tra loro collegati: nel suo seguire i fili immaginari che legano gli indizi tra loro, porta lo spettatore, come si è detto, a perdersi in una matassa ingarbugliata di deduzioni e ipotesi. Quando il caos arriva al suo apice, lo troviamo in una scena apparentemente banale, ma che può avere più di un significato: per tenere insieme i “pezzi” di ogni congettura, Sportello traccia uno schema su un muro. Quella che sembra un naturale modo per orientarsi può essere intesa come metafora di qualcosa di più generale, che ci riguarda da vicino. Ha forse ragione Pietro Bianchi [1] quando afferma che il film di Anderson non guarda a questo mondo frantumato con quel compiacimento postmodernista in cui il reale scompare – e con esso ogni categoria della modernità – annegando nel mare dell’interpretazione. L’operazione di Anderson sarebbe un’originale ripresa dell’idea della crisi della modernità attraverso lo sguardo del cinema classico.
In un certo senso, forse è possibile portare questo discorso ad un livello più alto. Lo schema tracciato da Doc Sportello, pur nell’allucinazione, nella paranoia, nella possibilità dell’autoinganno, può essere inteso come metafora del nostro modo di vedere il mondo andando oltre quelle (infauste) categorie relative all’esaurimento delle “grandi narrazioni”? Occorrerebbe rispolverare la riflessione baudelariana sull’esperienza della modernità come processo oscillante tra contingenza ed eternità di cui l’arte deve farsi carico, sapendo che il suo doppio volto (che possiamo trovare didascalicamente definito dalle categorie di modernismo e postmodernismo), corrisponde ad una tensione irrisolta caratteristica del capitalismo che oppone e talora fonde le forme stabili, centralizzate e gerarchiche all’instabilità, al decentramento e all’anarchia sia sul piano dell’ordine sociale sia in maniera subordinata a quello dell’ordine simbolico [2].
La ricerca di un senso, di una totalità dietro l’apparente frammentarietà dell’esperienza soggettiva simboleggiata dal detective Sportello, è un tema di tutta l’opera di Pynchon in cui è ben descritta l’asimmetria (economico-sociale e informazionale) del sistema di mercato che porta gli attori sociali che non controllano il processo produttivo ad essere dominati dalle potenze da loro stessi create (teoria del feticismo) e a non riuscire a leggere il “grande disegno” del capitale. Troviamo spesso delle figure di casalinghe, hippie e minatori coinvolti in trame che li sovrastano e di cui faticano a decifrare in ultima istanza il senso, ricadendo spesso nella paranoia schizoide e nel complotto. Marx stesso nel definire la modernità aveva scritto che “tutto ciò che è solido svanisce nell’aria” [3].
D’altronde, un ulteriore elemento interessante del film emerge proprio dalle singole scenette che compongono il quadro totale di Vizio di Forma, che spesso si configurano come veri e propri squarci sulla realtà americana degli anni Settanta. Lo sguardo di Pynchon/Anderson non indulge al romanticismo, ma racconta la fine delle illusioni e l’inizio di quella controrivoluzione neoliberista che abbiamo sotto gli occhi ancora oggi («Da quando il governatore Reagan aveva chiuso la maggior parte degli istituti psichiatrici statali, il settore privato aveva avuto carta bianca per colmare la mancanza, diventando di fatto un’abituale risorsa californiana per l’educazione di ragazzi»).
Clamorosamente satirica è poi la figura di Mickey Wolfmann, miliardario immobiliarista la cui scomparsa innesca la trama principale del film: la sua vicenda rappresenta infatti l’impossibilità di un membro della classe dirigente di mettere in discussione i cardini della società capitalistica senza che la classe stessa lo isoli per salvaguardare il proprio assetto di potere – la scelta narrativa dell’internamento manicomiale per un palazzinaro che si rende conto che avere un tetto sulla testa «dovrebbe essere gratis» è l’ironica fattispecie elaborata da Pynchon.
In questo senso, si può dire che il film di Anderson sia una retrospettiva su un mondo in trasformazione: un racconto che, tra grottesco e drammatico, illustra lo spaesamento di fronte a una realtà in frantumi, ma che non si arrende ad esso, né lo considera come condizione irreversibile da cui non c’è scampo. Se è vero che, per usare le parole di Nicola Lagioia [4], «l’assenza di speranze di un mondo che molti grandi scrittori postmoderni hanno letto per errore con le lenti di una sorta di marxismo privo di escatologia», dando corpo a narrazioni di una realtà «perfettamente mappabile ma non modificabile, nemmeno attraversabile in verticale», Vizio di Forma rappresenta il controcanto di tale disillusione, la via d’uscita dall’inerzia e dalla rassegnazione.

[1] http://www.leparoleelecose.it/?p=17997

[2] Cfr. Harvey, La crisi della modernità, Parte IV

[3] Marx e Engels, Il Manifesto del partito comunista. Si veda anche il bellissimo libro del compianto Marshall Berman che titola proprio All That Is Solid Melts into Air ed è una delle più affascinanti indagini sulla modernità e le sue contraddizioni.

[4] http://www.internazionale.it/opinione/nicola-lagioia/2014/12/28/viviamo-nel-mondo-inventato-da-william-faulkner

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