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Quando un sax di plastica….

Il suono e il canto sono stati gli elementi che hanno caratterizzato dall’inizio e per tutta la sua durata la carriera di Ornette Coleman. Una carriera tutt’altro che rettilinea e facile poiché se oggi egli è considerato uno dei grandi della musica jazz dagli anni sessanta in poi, il successo non arrivò subito e il consenso non fu all’inizio unanime. Il fatto stesso che Ornette Coleman sia arrivato a incidere il suo primo LP a ventotto anni è sintomatico di una sua difficoltà a farsi comprendere dallo stesso pubblico nero a cui la sua musica apparve in una prima fase troppo slegata dalla tradizione. Il suono di Coleman è stato sempre influenzato dalle prime esperienze degli anni cinquanta, quando usava un sax giocattolo di plastica, che lo costringeva a una ricerca specifica e ad adattarsi allo stesso ottenendo un suono “secco”, senza le risonanze e gli spettri sonori degli strumenti professionali. Una sonorità asciutta che rimase in seguito nella sua musica, anche quando prese ad usare un sax di ottone. Per quanto riguarda il canto, Ornette Coleman lo assunse come l’elemento fondamentale, che usciva dalla regolarità delle battute e rifiutava di essere ingabbiato dalle sequenza accordali prefissate su cui in genere improvvisavano i suoi predecessori. Proprio nell’improvvisazione libera che nasce da queste scelte musicali si può trovare il senso del termine di Free Jazz di cui Ornette Coleman è stato l’iniziatore, con il famoso disco dallo stesso titolo, apparso nel 1960, in cui due quartetti si lanciano in una lunga improvvisazione senza che sia possibile intendervi un ritmo misurato o una sequenza accordale. L’improvvisazione diviene così la forma e al contempo il senso stesso della musica di Coleman.

Anche il tradizionale ruolo del leader accompagnato, che aveva caratterizzato tanta parte del jazz, e con esso l’idea della prevalenza di certi strumenti su altri viene disgregata nella visione colemaniana, dove tutti gli strumenti sono chiamati a un lavoro paritario, a una costruzione polifonica che rifiuta il virtuosismo del concerto e guarda piuttosto alla forme del jazz primitivo e a un’idea di democrazia che sta – come ha notato Giampiero Cane – nel formarsi stesso dell’opera. 1

Sarebbe riduttivo, tuttavia, non guardare al contesto in cui il Free Jazz colemaniano mosse i primi passi ma soprattutto trovò espressione anche da parte di altri musicisti, come, per citare tre nomi noti, Cecil Taylor, Max Roach e John Coltrane. Mi riferisco al contesto degli anni sessanta americani e alla presenza culturale forte nel mondo neroamericano delle idee di Malcom X e del Black Power, alle lotte di liberazione dei popoli africani che in quegli anni giungevano a compimento, al rifiuto della guerra al Vietnam e alla ben nota vicenda politica e che portò alla detronizzazione di Mohammed Ali dal titolo di campione mondiale. E se guardiamo ancora allo sport, non possiamo non immaginare che un brano di Free Jazz avrebbe potuto essere degna colonna sonora della famosa scena di Tommy Smith e John Carlos a pugno levato sul podio delle Olimpiadi di Città del Messico.

In quel contesto sociale e politico nacque il Free Jazz, distruggendo l’ormai stanco Be-bop e ponendosi nel rifiuto del virtuosismo quanto del commercio musicale. Se è vero, come è vero, che la musica è nella storia e la storia è nella musica, la parabola musicale del Free Jazz deve essere considerata in tale contesto, con cui esso interagì e trovò connessioni. Questa affermazione, nella sua quasi evidenza, tuttavia, non ci autorizza ad applicare al jazz i criteri e i parametri della storia della musica che le classi egemoni hanno applicato alla loro stessa produzione musicale (come per esempio il concetto di avanguardie che mal si attaglia al jazz), ma dobbiamo piuttosto pensare alle dinamiche dell’ espressione culturale di una comunità di dominati, quindi a una cultura in cui non dobbiamo cercare un significato rivoluzionario in una specifica musica o genere, ma piuttosto nel suo organizzarsi complessivo come cultura altra da quella egemone. Per ritornare, su questo tema, proprio a Coleman e a una sua famosa frase “Rivoluzionario è il jazz in sé. Il fatto che il jazz esiste”.

1 G. Cane: Canto nero, Bologna, C LUEB, 1982.   

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