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Suburra, ultimo sprazzo di girotondismo

I successi del momento sono sempre indicativi di quanto il “senso comune” di questo paese vada lentamente trasformandosi. Dunque ha un senso occuparsi di Suburra, film diretto da da Stefano Sollima, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, sceneggiato da Stefano Rulli e Sandro Petraglia

Una “batteria” – per usare un termine da vecchia malavita che indica un gruppo coeso di amici, ancorché dediti a ramazzare reddito in modi altamente illegali – che ha metodicamente costruito il proprio successo saccheggiando la “cronaca nera” (banda della Magliana, guerriglia degli anni ’70, strategia della tensione, vicende di mafia, ecc), inquadrandola in una narrazione moderatamente progressista, legalitaria a prescindere dal merito delle leggi, consolatoria e delegante (allo Stato, o almeno alla magistratura e alle infinite polizie italiane) il compito di restituire “ordine e onestà” a una classe dirigente sempre “deviante”.

Il film è compatto, ben fotografato, quasi perfetto nelle ricostruzioni degli ambienti. Ma si regge per intero sulla capacità di tenere alta l’attenzione dello spettatore grazie alla grande capacità espressiva dei tre protagonisti principali (Claudio Amendola, Pierfrancesco Favino, Elio Germano), circondati da una serie di più o meno bravi caratteristi che cercano di rendere credibili personaggi ridotti a semplici maschere. Splendidamente recitato, insomma, a dispetto di un filo narrativo elementare. Da cronaca nera, appunto, dove il giornalista ricostruisce sulle veline della questura una serie di fatti di cui ignora tutto (processi sociali, trasformazioni, legami, subculture).

Non ci vogliamo però qui addentrare nell’annosa e irrisolvibile discussione tra “realismo” e fiction, perché ci sembra assodato che un film sia per definizione fiction, ovvero una narrazione dai legami giustamente arbitrari con la realtà. Anche se questo film prende dalla realtà (dalla cronaca, ovvero da una riduzione unilaterale e ossificata del reale) tutto quel che serve a imbastire una trama appetibile.

casamonicaÈ esistito davvero un deputato berlusconiano – Cosimo Mele, Udc – che si è esibito nudo sul balcone dell’albergo in cui si stava intrattenendo con due prostitute e dosi massicce di cocaina (per fortuna sono rimaste entrambe in buona salute, al contrario di quel che accade nel film). Esiste davvero una famiglia di “zingari cravattari” che prova da decenni a fare il salto di qualità (si chiamano Casamonica, com’è risaputo, e andavano a cena con Alemanno, l’attuale ministro Giuliano Poletti, Salvatore Buzzi, Panzironi, i piddini Marroni padre e figlio e compagnia bella). Esiste davvero un ex terrorista fascista legato alla banda della Magliana che provava a fare “il re di Roma”, conducendo affari a forza di “proposte che non si possono rifiutare”. Esistono davvero i ruffiani che procurano prostitute e droghe varie ai potenti (non solo politici) che vogliono passare una serata trasgressiva senza correre troppi rischi.

Ma la realtà agli autori serve solo come catalogo da cui attingere figure e scene madri, forzando spesso la mano oltre il limite del ridicolo. La Roma descritta nel film è un campo completamente libero, senza poliziotti, carabinieri o almeno un vigile urbano, in cui chiunque può scorazzare e sparacchiare per lunghi minuti senza che nessuno intervenga. Clamorosa la scena nel centro commerciale (Porte di Roma), da cui sono stati esclusi persino gli onnipresenti vigilantes per non interferire con una narrazione già zoppicante.

Anche il dispotismo feroce con cui i boss trattano “i morti del mondo di sotto” (per usare la retorica di Carminati) è così esagerato da costringere gli stessi autori a un piccolo rovesciamento dialettico, quasi si sentissero costretti a rappresentare un briciolo – marcio – di speranza. “Il ruffiano” e “la tossica” alla fine ammazzano il loro nemico personale, ma solo per sopravvivere ancora un po’ (sono soli, senza coperture e senza ambizioni, non andranno lontano).

Ma un film che prende personaggi e vicende centrali dalla realtà “del palazzo” ha l’ambizione di voler essere un film politico. Tutto si svolge nella settimana che precede le dimissioni di Berlusconi e Ratzinger, espressamente indicata come la data dell’”apocalisse” che travolge palazzo Chigi e il Vaticano. Peccato che tra i due fatti, di dimensioni davvero storiche e dunque anche politiche, corrano più di quindici mesi. Berlusconi si arrende l’11 novembre del 2011, mentre Ratzinger lascia il soglio di Pietro il 28 febbraio del 2013.

Non fa nulla, si dirà, in fondo è fiction… Sì, certo, ma allora perché hai voluto creare questo legame, giustificato peraltro soltanto da un solitario cardinale in affari immobiliari col “samurai”? A Roma, dove il Vaticano possiede il 25% degli immobili del centro storico entro le mura? Maddài…

Non è però neanche questo il punto politico vero. Suburra è un libro e poi un film scritto in un’epoca ormai sepolta: quella del berlusconismo trionfante e dell’antiberlusconismo unico collante di una “opposizione” che, come si è rapidamente visto dopo, era solo una banda diversa (almeno nei vertici politici). Non un’altra cultura della “cosa pubblica” (non diciamo “alternativa” per non soffocare dalle risa…). E ci viene il dubbio che magari potrebbe esser stato il grande Amendola a far inserire nel copione una delle sue ultime battute quando il grande affare Waterfront si arena sulla crisi di governo (“vabbè, ricominceremo da capo e ci compreremo qualcuno dall’altra parte”).

Per un film che vuole essere politico c’è comunque un buco che ha del clamoroso: non parla a nessuno. Quella piccola folla che va davanti a palazzo Chigi a maledire il Caimano che si dimette è a sua volta tratta dalla realtà delle cronaca. È una folla di telespettatori raggirati, non di cittadini portatori consapevoli di un’altra etica e di altri interessi. Non azzardano nessuna mossa che vada oltre il puro esser lì a gridare un’indignazione sterile, delegata, già risolta (le dimissioni imminenti erano state annunciate da tutte le tv). Neanche uno che insulti o provi a mettere una mano addosso al “noto deputato” che l’attraversa.

Niente. Pura rappresentazione, la finzione di un popolo. Senza ricambio, senza progetti e senza speranza.

Involontariamente, è questo il dato più realistico del film. Quella notte è stato sì eliminato dalla scena istituzionale un “impresario” collettore di malaffare, ma non c’è stata alcuna “liberazione”. Perché non sono stati quei telespettatori indignati a realizzare “il cambio”, ma una vera e propria “invasione” da parte della Troika. Un passaggio di consegne, non una rivolta.

Per questo, Suburra non è affatto un film politico sull’attualità (nonostante abbia avuto la fortuna di arrivare dopo Mafia Capitale), come pure avrebbe preteso la retorica girotondina degli autori. È un film modestamente storico, quasi in costume, su un mondo che non esiste più come filiere di comando, ma esiste ancora come parassiti e manovalanza al servizio di regnanti diversi. Regnanti di cui difficilmente quella “batteria” di autori si occuperà nei prossimi anni.

Naturalmente hanno la possibilità di smentirci, ma ne devono fare di riflessioni prima di riuscirci…

 

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