Menu

È morto Lemmy Kilmster, addio all’Asso di picche

Lemmy Kilmster è morto a Los Angeles all’età di settant’anni, poco dopo aver ricevuto una diagnosi particolarmente severa: cancro.
Una vita eccessiva, la sua, assolutamente rock’n’roll, ideale che non ha mai abdicato né nascosto in mezzo secolo di carriera. Ecco, se si pensa al motto “sex, drugs and rock’n’roll” quello di Lemmy è uno dei primi volti che passa per la mente. L’aneddotica su di lui è molto vasta, e come sempre quando si parla di leggende, sfumata tra la realtà e il mito. Per dire, non si sa nemmeno da cosa derivi il suo soprannome, “Lemmy”.
Ian Fraser Kilmster sosteneva che lo chiamavano così da quando aveva dieci anni e che volesse dire “caprone”, altri dicono che il nomignolo sarebbe nato nei suoi giorni da roadie, quando lui chiedeva in continuazione “Lemme a fiver”, prestami cinque sterline.
Le sue prime tracce nel mondo della musica affondano negli anni ’60, quando dopo aver fondato gruppi dalla vita assai breve, Lemmy entrò negli Hawkind, padri nobili dello space rock britannico, era il 1967. L’avventura sarebbe finita dopo otto anni, per licenziamento: era stato arrestato per possesso di anfetamine. In seguito, narra la storia, Lemmy avrebbe provato a insegnare a suonare il basso a Sid Vicious, vanamente, pare, perché dopo poco si constatò la sostanziale inabilità allo strumento da parte del bassista dei Sex Pistols e la faccenda virò verso l’alcol e le sostanze.
Poco dopo Kilmster fondò i Motorhead, un terzetto (a tratti quartetto) di schegge con l’obiettivo di correre più veloci della luce: un misto schizofrenico di punk rock e metal, condito dalla sua voce gutturale e sgraziata, unica nel suo genere. Da ricordare anche qualche sua apparizione in spettacoli televisivi e cinema di serie B: la fiction scientifica “Hardware”, un’apparizione in Eat the Rich, commedia del 1987 di Peter Richardson. Memorabile anche un suo spot del Kit Kat: vestito da metallaro, con il cappotto da cowboy in testa mentre suona il violino in una sala da tè, l’autoparodia di una leggenda vivente, il simbolo di una grandezza virata sul trash e sulla simbologia del rock.

Gli ultimi anni sono stati segnati da qualche album non imprescindibile e dai soliti memorabili tour in giro per il mondo, talvolta interrotti da qualche problema di salute che già cominciava a manifestarsi. Il suo verbo è custodito, oltre che nella sua musica, in una clamorosa autobiografia scritta insieme a Janiss Garza, in italia edita da Baldini Castoldi Dalai: “La sottile linea bianca”, il titolo. Azzeccatissimo.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *