Menu

La vita di un terrorista islamico. Il grande salto di Mahi Binebine

Una mattina del giugno 2003 il Marocco fu sconvolto da una serie di attentati islamici suicidi che causarono la morte di 45 persone e il ferimento di almeno altre cento. L’azione era stata effettuata da un gruppo di 14 giovanissimi provenienti da una città ghetto, Sidi Moumen, propaggine di Casablanca dalla cui vita sociale e culturale è separata però non solo idealmente ma anche fisicamente dall’alto muro che circoscrive la tangenziale automobilistica di quest’ultima città1.

Sulle origini e la gestazione di tali attentati s’incentra il romanzo di Mahi Binebine recentemente pubblicato in traduzione italiana (curata da Manuela Maddamma) con il titolo Il grande salto.

Il pregio fondamentale di questo libro sta forse proprio nella sua forma: l’autore ha scelto infatti di ripercorrere quei fatti attraverso la scrittura dell’autobiografia immaginaria di uno degli autori, ormai morto dilaniato nell’attentato. Proprio l’uso della simulazione autobiografica sottrae questo lavoro ai limiti del giustificare o condannare in termini generali il fenomeno dei giovani attentatori suicidi, concentrando invece l’attenzione del lettore sulle situazioni particolari di persone e piccoli gruppi che fanno una tale scelta. L’autobiografia è notoriamente la forma letteraria in cui maggiore è l’esercizio della soggettività, che sfugge alle generalizzazioni e al giudizio dell’oggettività; se poi a narrarsi, come nel romanzo, è una persona morta, ormai spogliata della paura che suscita un terrorista, diventa centrale proprio la sua storia umana.

Nel romanzo di Binebine, leggiamo della vita di un giovane che vive nell’enorme ghetto di Sidi Moumen, con un gruppo di amici che si aggregano in una squadra di calcio che, come quasi sempre in quelle situazioni, si chiama Les étoiles2 (le stelle) e in cui il protagonista del romanzo è il portiere, cresciuto nel mito del grande Yashin. Una vita fatta di stenti e di improbabili lavori occasionali, a volte inventati per avere qualche soldo, totalmente altra rispetto alla vita che si svolge a pochi chilometri di distanza, nei quartieri ricchi di Casablanca. Una vita, quest’ultima, che il giovane protagonista quasi ignora e che scopre solo quando un componente dell’organizzazione che lo indurrà al martirio lo conduce, con altri, in automobile attraverso i quartieri di Casablanca in cui, proclama, vivono i corrotti e gli infedeli che debbono essere distrutti. Ma il senso che si coglie dalle parole del giovane protagonista è più quello dell’alterità, dell’estraneità che non quello dell’opposizione verso quel mondo. Questa percezione si accresce nelle pagine in cui si racconta di quando i giovani attentatori raggiungono l’obiettivo della loro azione, un grande albergo, in cui, di fronte a quanto vedono, hanno la sensazione di essere in un mondo diverso da quello che conoscono e in cui vivono. Questo anche perché per i giovani di Sidi Moumen non c’è possibilità di una vita alternativa a quella del ghetto, della miseria, dello squallore, della discarica dove molti trovano sostentamento recuperando qualche soldo dai rifiuti. Una vita diversa è semplicemente impossibile da immaginare. Una situazione in cui così come si impara a schivare e addomesticare i colpi dati da un padrone prepotente, ci si abitua a sopportare quelli della vita “ Ali …come molti di noi, quei colpi li aveva addomesticati. Ormai erano parte integrante della sua vita come l’amarezza dell’umiliazione, come la bruttezza che ci circondava ovunque, come il dannato destino che ci aveva consegnanti, legati mani e piedi, a quelle rovine senza nome” (pag. 37). Una situazione in cui il problema più evidente è quello della mancanza della possibilità di costruzione identitaria vissuta dalle giovani stelle di Sidi Moumen: nel loro futuro non c’è un cielo in cui immaginarsi realmente come una stella.

Proprio in questo contesto appare, quasi come venuto dal nulla, un personaggio che all’inizio si presenta solo come un uomo adulto di buona cultura religiosa e di un indubbio carisma. L’educazione religiosa dei giovani non inizia subito. In una prima fase, è soprattutto l’aggregazione amicale, che si svolge in una palestra di arti marziali e in un garage scelto come luogo di ritrovo, che prevale. Il nuovo venuto però si interessa anche di trovare, qualche volta inventandoli, dei lavori più stabili per i giovani e in seguito inizia il progetto propriamente religioso che trasforma i giovani di Sidi Moumen, sia nello spirito che nell’aspetto fisico. Li trasforma perché offre loro l’idea di un’identità, di essere in qualche modo più degni, di essere stati prescelti, di avere una cultura migliore, di condurre un’esistenza che non è fatta solo di umiliazioni e di squallore. Un senso di redenzione che passa anche attraverso gli aiuti del nuovo amico, che provvede a scovare e qualche volta ideare del lavoro per loro, garantendo dei guadagni più sicuri e stabili, aiutando economicamente le famiglie dei giovani che partecipano agli incontri religiosi, arrivando a offrire loro la prima vacanza della vita (che in realtà si rivela una sorta di campo di addestramento militare).

E’ un percorso che sfocia nella tragedia, quando, sempre più frequentemente, al garage-ritrovo si presentano nuovi personaggi che gradualmente porteranno i giovani ad accettare di diventare terroristi: “non abbiamo scelta” dichiara il fratello del protagonista quando l’ordine di compiere l’attentato si esplicita. Giovani che sono essi stessi vittime, prima perché dimenticati dalla società e dallo stato, poi perché ingannati dagli islamisti sino a renderli loro strumento. Toccante la pagina in cui il protagonista del romanzo ricorda i suoi pensieri mentre, in autobus, si recava all’appuntamento con la morte, quella morte che avrebbe provocato a persone sconosciute ma anche a se stesso: “La morte aveva scelto me, proprio me, in una tribù di straccioni e io esultavo di essere il suo eletto. Ero pronto ad acconsentire ai suoi capricci ammesso che permettesse di abbracciarla. Aggrapparmi e volare con lei. Attraversare i sette cieli e rinascere altrove, lontano. Il più lontano possibile da Sidi Moumen e le sue lamiere ondulate, il suo lerciume e la sua gentaglia. Respirare un’altra aria e dimenticare per sempre la discarica. Abbandonarmi al nulla e uccidere la noia. Farla finita con il fango e gli insetti. Non vedere più ragazzini vestiti di stracci correre dietro ai camion della spazzatura e prendersi a botte per essere i primi a frugare,a sprofondare fino alla vita nelle dune di rifiuti. No. Non volevo più vedere quelle macchine mostruose riversare sull’infanzia i loro detriti e i loro vomiti (pag. 140-141)”.

Si tratta di una storia di vita che quindi non aspira a proporre un’analisi del terrorismo islamico ne può essere generalizzata proprio perché specifica e particolare di una situazione. Le storie e le motivazioni dei giovani terroristi sono diverse e ogni generalizzazione rischia di essere sommaria e non veritiera. Ma questa storia vale la pena di essere letta.

1 Anche se la forma del libro è quella del romanzo, la narrazione si basa su uninchiesta sui fatti accaduti nel giugno 2003. Lautore ha destinato i proventi del libro alla costruzione di un centro giovanile a Sidi Moumen.

2Il titolo originale del libro, uscito in francese da Flammarion nel 2010, è proprio Les étolies de Sidi Moumen, forse più aderente allo spirito del romanzo, ma si sa, in Italia esiste la strana abitudine di cambiare anche senza una vera ragione titoli di libri e di film che sono tradotti nel nostro paese.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *