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La cultura non ha sindacato. Immaginifico racconto di angoscia quotidiana

Nell’epoca dei diritti azzerati, delle tutele crescenti – crescenti per aziende ed imprenditori – e dell’ industria 4.0; nell’epoca dei sindacati che siedono alla mensa dei padroni e nei consigli di amministrazione delle Spa multinazionali; nell’epoca della cultura ridotta a turismo – turismo innanzitutto mentale – e della cultura/spettacolo; in un’epoca siffatta, può accadere che due persone di oltre quarant’anni, un giornalista freelance di pagina culturale (con preminente interesse per la critica teatrale e cinematografica) e un’attrice, principalmente teatrale anch’ella, non abbiano più alcun riferimento sindacale, alcuna certezza di diritto e alcuna sicurezza per il futuro.

Può succedere, allora, che essi, presi da sconforto e timore, decidano di comprendere meglio quali siano, nel marasma generale fatto di sfruttamento, algoritmi e clientelismo anomalo, le leggi che disciplinano i loro rispettivi lavori e, dunque, che diritto possano e potranno rivendicare rispetto, ad esempio, alle pensioni o ad un eventuale sussidio di disoccupazione.

E succede, allora, che le due persone in questione – se si vuole, anche politicamente orientate a sinistra (sic) – decidano di rivolgersi, per chiedere un semplice consiglio, al più grande sindacato italiano, per Storia quello più impegnato nella tutela della classe lavoratrice: la CGIL. E, precisamente, la Cgil-Slc, cui afferiscono – o meglio, dovrebbero afferire – le più svariate categorie impegnate nel mondo frastagliato della comunicazione: dagli attori ai giornalisti, passando per i tecnici e le maestranze.

Or dunque, la Cgil-Slc (Sindacato Lavoratori Comunicazione) della Campania, alla quale, teoricamente, dovrebbero far riferimento le due ipotetiche persone succitate, in quanto napoletani e, rispettivamente, attrice e giornalista, non risponde neanche al telefono. Il suo segretario regionale – lo chiameremo Osvaldo Barba – non trova cortese neanche rispondere ai messaggi in chat, inviati più volte e che pure visualizza, e nei quali viene avanzata, esclusivamente, dal giornalista, la possibilità di parlargli.

Non si richiedono certo trattamenti o agevolazioni di favore; eppure, si tratta di favori di cui, a ben considerare, il giornalista potrebbe far domanda, essendone creditore.

Difatti, per lor signori, ahi lui, egli ha lavorato, scrivendo sul periodico Merqurio, rivista, appunto, edita dalla Cgil-Slc. E ha lavorato ovviamente gratis, su richiesta di un amico per il quale nutre ancora una certa stima.

Ora, trattandosi del sindacato più grande del nostro paese, nonché di quello che, storicamente, avrebbe dovuto avere, come obiettivo primario, la difesa dei diritti dei lavoratori e dei loro salari, senza mediazione con la classe padronale, tale vicenda la dice lunga sullo stato di vessazione cui, i lavoratori italiani (e quelli della cultura non fanno eccezione, anzi), sono sottoposti. La triplice, Cgil in testa, avalla ed è complice del massacro sociale in atto. Poi, certo, ci sono le eccezioni, rappresentate dai singoli. Ma si tratta, precisamente, di eccezioni. 

Ma andiamo avanti. Passi pure per il giornalista, che ha, da sempre, avuto un atteggiamento critico e duro nei confronti delle logiche sindacali portate avanti dalla Cgil e ha litigato con tutti i giornali possibili, perché ha sempre anteposto la Libertà di pensiero all’utile del Guadagno; ma la sua compagna avrebbe voluto chiedere dei consigli ed un parere su questioni riguardanti il suo proprio lavoro.

Un lavoro, quello di attrice, impegnata, non a caso, soprattutto in teatro, che il Mibact di Franceschini ed i governi neoliberisti di sinistra, stanno provvedendo a massacrare, da anni, con leggi e decreti tutti calibrati sulle ragioni del mercato. Non ultima, ad esempio, la nuova Legge sullo spettacolo dal vivo, contenente anche i parametri di bilancio per i prossimi anni.

In essa, in pratica, si affermano due principi inquietanti, a ben leggere tra le righe. Uno riguarda l’aumento del Fus (Fondo Unico dello Spettacolo) finora esiguo, ma il cui ampliamento verrà destinato, pare, ai carnevali, alle scuole, alle attività amatoriali e alle ricostruzioni storiche regionalistiche e di richiamo turistico. In pratica, non a quel Teatro, propriamente inteso, le cui piccole realtà rischiano di morire per consunzione. L’altro, invece, solleva le produzioni e le aziende produttrici di spettacoli teatrali, cinematografici e circensi – la cultura come merce è, oramai, un must ideologico dell’industria 4.0, parafrasando il professor Guglielmo Carchedi – dall’obbligo della richiesta del certificato di agibilità nei confronti dei lavoratori. Il che, se capiamo bene, incentiverebbe il lavoro in nero, tranne nel caso di contratti superiori ai trenta giorni. Ergo, nel caso di grandi produzioni o compagnie. Un progetto politico, ci sembra, ben chiaro. La Cultura e lo Spettacolo devono produrre profitto, nella più asfittica logica neoliberista. Pertanto, date queste premesse, si all’intrattenimento. No al pensiero libero. E chi non si uniforma, è tagliato irrimediabilmente fuori. 

In questo scenario avvilente, d’altra parte, non tutti sanno che ci sono attori che si suicidano, perché la loro dignità lavorativa ed artistica è oramai calpestata nel nome del volgare profitto. Progressivamente, ma inesorabilmente, la cancellazione dei diritti e delle tutele di queste soggettività procede nel silenzio generale. Per restare nel solo ambito della città di Napoli, ad esempio, compagni ed artisti del calibro di Michele Del Grosso e Mario Santella, vivaci interpreti dell’avanguardia italiana negli anni ’70 e ’80, vivono quasi dimenticati e senza neanche un sostegno previdenziale adeguato.

Nell’assenza e nel silenzio colpevole del sindacato, certo. Ma anche nell’assenza e nel silenzio colpevole, va sottolineato, degli stessi operatori del settore, che, evidentemente, o per giustificatissima paura, alcuni, o per un utilitaristico e semplicistico ragionamento autoreferenziale, altri – come il desiderio di continuare a gratificare il proprio ego con applausi e visibilità o nella speranza di essere chiamati da questo o quel regista o produttore – non dicono nulla e non organizzano lotte, che pure sarebbero improcrastinabili in questo deserto.

Il tutto, mentre la Cgil, che dovrebbe rappresentare i diritti e le istanze di questi lavoratori, sostenendoli in quelle lotte eventuali e sacrosante, non va oltre dei miseri comunicati stampa o il consueto compromesso. Del resto, la Cgil tutta è un’organizzazione retta, per lo più, da logiche compromissorie, verticistiche,  clientelari, e addirittura ricattatorie, data la sua subalternità al Pd. 

Basti pensare al trattamento riservato al compagno Giorgio Cremaschi,  malmenato, qualche anno fa, durante un congresso, dal servizio d’ordine cgiellino perché in disaccordo con la linea della dirigenza Camusso, di cui i metalmeccanici contestavano l’accordo sulla rappresentanza. Vergogna perciò, è la sola parola che può passare per la testa. Vergogna! Anche per i lavoratori dello spettacolo e della cultura attendiamo e auspichiamo, quindi, la nascita di un sindacato di classe e di lotta.

E non si dica che si tratta di lavoratori privilegiati. Non tutti i registi, gli attori, i drammaturghi, guadagnano fior di milioni di euro. Come non tutti i giornalisti – o critici – fanno questo lavoro badando al tornaconto personale o genuflettendosi alla linea editoriale del foglio al quale, di fatto, appartengono.

E allora, per rendere l’idea di quanto un artista, una donna o un uomo di cultura, possano sentirsi a disagio, in una società che non li comprenda o li respinga, e che essi stessi respingono perché non in linea col pensiero dominante o in contrasto con la morale comune, mi sia consentito riportare, di seguito, un passo tratto da “Van Gogh, il suicidato della società”, di Antonin Artaud:

«Parliamo pure della buona salute mentale di Van Gogh il quale, in tutta la sua vita, si è fatto cuocere solo una mano e non ha fatto altro, per il resto, che mozzarsi una volta l’orecchio sinistro, in un mondo in cui si mangia ogni giorno vagina cotta in salsa verde o sesso di neonato flagellato e aizzato alla rabbia, colto così com’è all’uscita dal sesso materno. E questa non è un’immagine, ma un fatto abbondantemente e quotidianamente ripetuto e coltivato sulla terra intera. Ed è così, per quanto delirante possa sembrare tale affermazione, che la vita presente si mantiene nella sua vecchia atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio, sregolatezza, pazzia cronica, inerzia borghese, anomalia psichica (perché non l’uomo, ma il mondo è diventato un anormale), di voluta disonestà ed esimia tartuferia, di lurido disprezzo per tutto ciò che mostra di avere razza, di rivendicazione di un ordine fondato interamente sul compiersi di una primitiva ingiustizia, di crimine organizzato, insomma».

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