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Le maschere della borghesia teatrale. E’ tempo di essere clandestini

Trasmessa in differita su Rai 1, si è tenuta, giovedì scorso 5 Settembre, presso il Teatro Stabile Nazionale Mercadante di Napoli, la sedicesima edizione del Premio Le Maschere del Teatro.

Nato come Premio Eti-Gli Olimpici del Teatro, poi rinominato Le Maschere – impostato ricalcando la formula degli Oscar del cinema – si tratta di un premio creato e fortemente voluto dal direttore uscente dello stabile partenopeo, Luca De Fusco. La cui direzione – come abbiamo più volte detto dalle nostre pagine – si è caratterizzata, in questi anni, per un uso disinvolto delle risorse pubbliche e per una gestione tutto sommato privata di quel Teatro che, per statuto, fu pensato per essere patrimonio della collettività, dei territori, di Napoli e delle sue periferie.

Una kermesse elitaria, improntata ormai al clientelismo più sfacciato; quando non addirittura “familistica”, per come si declina ad ogni edizione. Basti pensare che lo stesso De Fusco ha più volte vinto l’alloro, in passato, come miglior regista o come miglior spettacolo, praticamente auto-attribuendosi il premio.

Una kermesse irritante, specchio di una visione complessiva dell’arte e della società, fortemente reazionaria, oligarchica e classista.

Una kermesse la cui sintesi concettuale sembra trovare compiutezza nell’idea debordiana che, in un contesto storico completamente spettacolarizzato, non possano esistere spettacoli contro.

Mi spiego.

Al netto dei meriti artistici dei premiati – attrici, attori, registe, registi, autrici e autori, per la gran parte di indiscutibile spessore, di grande esperienza e di assoluta professionalità – l’elemento, che qui s’intende mettere al centro di un discorso apertamente in contrasto con le logiche del Premio in questione, è di carattere culturale ed etico, prima ancora che politico.

Si vuole porre l’accento su quell’annichilimento del pensiero critico e antagonista, causato dal suo, oramai quasi totale, assoggettamento all’ideologia neoliberista del mercato e a quella postmodernista dell’arte.

Annichilimento e assoggettamento veicolati, anche e soprattutto, dalla scomparsa di una chiara cultura marxista e anti-sistema, al cui inesorabile trasformismo – sempre più diluito in tinte color rosa riformismo e grigio compatibilismo – ha contribuito quella “sinistra” istituzionale che ne ha, da tempo immemore, smarrito i presupposti teorici e i principi analitico-scientifici e critici. Per ragioni essenzialmente utilitaristiche, legate al mantenimento del Potere purché sia, seppur micragnoso.

Quella sinistra insomma che, non più egemone da almeno trent’anni, ma egemonizzata dall’ideologia borghese e globalista della società liquida (Bauman) e della comunicazione (politica, artistica, interpersonale) ridotta a mero linguaggio deprivato di senso e di unità/univocità, è implacabilmente naufragata nelle derive del pensiero debole e del relativismo ermeneutico.

Insomma, Le Maschere del Teatro sembrano volerci dire che non possono esistere “spettacoli contro” perché ha vinto lo Spettacolo, inteso come archetipo socio-esistenziale, in grado di assorbire e cooptare qualunque forma di opposizione e dissenso, facendola propria.

E allora, in tal senso, vedere la sinistra teatrale, la sinistra che si oppone – almeno a chiacchiere – alla concezione borghese, padronale e iper-produttivista di un teatro regolamentato dagli astrusi algoritmi di Franceschini – tornato, grazie al nascituro governo giallo-blu, al Mibact, come l’assassino torna sul luogo del delitto – e dai criteri quantitativi e mercantili dei freddi numeri (che compendiano, poi, la concezione aziendalista dello stesso De Fusco) schierata al Premio Le Maschere, in attesa di ricevere il riconoscimento dal destituendo e abbronzatissimo Principe, è uno spettacolo disarmante e avvilente.

Segno di un’epoca tirennaggiata – sul versante economico – dalla dittatura del profitto e del ricatto esercitato, in ambito teatrale, su un lavoro già di per sé stesso precario; e votata, sul piano esistenziale, alla religione dell’individualismo, al santino dell’ego, al moloch del narcisistico apparire.

Epoca caratterizzata dal proclama, dall’enunciato, dal godimento della parola vuota e autoreferenziale. Parola sradicata da qualunque pensiero strutturato, da qualunque aggancio col reale e con l’altro. Da qualunque praxis gramsciana.

Una parola che si esalta nella comunicazione immediata dei social e che può, altrettanto immediatamente, essere smentita.

In breve, quel che qui si vuol dire, è che quando ci si schiera tanto apertamente – politicamente, artisticamente, intellettualmente, non fa differenza – si dovrebbe avere, poi, il consequenziale coraggio di far seguire le azioni alle parole. Di sostenere fino in fondo le proprie idee e la propria partigianeria. Altrimenti si abbia almeno il buon senso di tacere!

Boicottare Le Maschere, avrebbe significato, nel tempo, boicottare proprio la concezione elitaria e autoreferenziale della scena, da sempre, come si diceva, portata avanti dal De Fusco e dai suoi referenti politici. In primis, quel Gianni Letta, presidente del Premio, e in passato braccio destro  di Berlusconi. Non proprio un progressista, insomma.

D’altronde, basti considerare che Le Maschere, nel corso di questi anni, lungi dall’essere assegnato in considerazione di effettivi meriti artistici, è stato per lo più attribuito – pur non mancando, chiaramente, casi di reale valore teatrale – sulla base di logiche prettamente legate al mercato, al botteghino, al profitto.

Dunque, più che l’attrice o l’attore, la regista o il regista, l’autrice o l’autore, o lo spettacolo, sono state premiate le produzioni. E, considerando che le produzioni più importanti anche in virtù del Decreto Franceschini/Nastasi – possono metterle su solo i Teatri Nazionali e i Tric (Teatri di rilevante interesse culturale), ecco che il premio, per la maggior parte, viene conferito a queste istituzioni. Con buona pace dell’effettiva caratura artistica.

Una formula condominial-familistica (è stato premiato anche quel Roberto Andò che subentrerà a De Fusco alla guida del Mercadante, in continuità politica e amministrativa) che, inequivocabilmente, danneggia i piccoli spazi e le produzioni indipendenti. Annientando, di fatto, ogni pensiero critico, scoraggiandone l’audacia sperimentativa, la creatività estetica e l’innovazione linguistica.

Ma soprattutto, svilendo la rilevanza teoretica di quell’indagine filosofica, politica, storica e culturale – di impronta marxista – che, un tempo non troppo lontano, apparteneva ad un’arte, ad un cinema e soprattutto ad un teatro italiano, capace di affondare lo sguardo ed il bisturi dell’analisi critica nelle strutture economiche che plasmano la società. Nelle sue dinamiche intrinseche, nelle sue contraddizioni, nei suoi processi dialettici, e nei suoi conflitti di classe.

Si è finito così per omologare il tutto, attraverso spettacoli che, seppur diversissimi per stile e per codici, sono caratterizzati da un impianto ideologico sostanzialmente rassicurante, nel suo invariabile conformismo.

Certo, tra i premiati non mancano taluni interessanti eccezioni, come dicevamo prima. Quest’anno, ad esempio, il riconoscimento come miglior spettacolo è andato al non certo convenzionale Macbettu, prodotto da Sardegna Teatro e quindi estraneo al sistema degli stabili. Ma sembrerebbe, appunto, l’eccezione che conferma la regola!

Fatte dunque tali premesse, non è difficile intuire dove voglia andare a parare il nostro discorso.

I premi si possono rifiutare, in nome della dignità personale e dell’Arte. Si devono rifiutare. Specie se ci si dichiara “partigiani” di una concezione del Teatro, ma più in generale della cultura, fuori dalle logiche liberiste, mercantili e reazionarie.

Una passerella in meno, meno vanità, farebbe bene all’Io, alla coerenza e al Teatro stesso. Oltre che a quel pensiero antagonista che teatranti, artisti, intellettuali troppo spesso invocano con troppa leggerezza.

L’antagonismo, costa dolore, fatica, solitudine e lotta. Spesso si coniuga con la povertà. Ma almeno ripaga in termini di coerenza e dignità. Sono tempi difficili e tristi. Tempi di barricate.

È tempo di essere iperborei. È tempo di mettersi in ascolto. È tempo di essere clandestini!

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