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Fare cultura a Napoli, tra massificazione e Sisifo

Ora che si è un po’ attutita la bagarre per la fuoriuscita di Nino Daniele dalla giunta comunale, possiamo forse parlare della cultura a Napoli. La quale si ritrova, ancora una volta, come i beduini del deserto, ferma nel refrigerio momentaneo di qualche oasi e poi di nuovo in partenza in un eterno nomadismo.

In altre parole, non trova pace. Pasolini del resto, definì i napoletani una tribù e certo di questa tribù fa parte a pieno titolo Luigi De Magistris. Una amministrazione che viene vituperata un giorno sì e uno pure, come direbbe Totò, a prescindere. A prescindere da qualche risultato pur positivo come una mutazione della città in una condizione più vivibile e meno minacciosa di un tempo; mentre non analoga foga critica si riscontra nell’analisi dell’amministrazione regionale che di danni alla cultura ne ha fatti e molti, con dispendio di ben altre risorse.

Ma De Magistris, nonostante la guida annosa della città, resta pur sempre un “diverso” dall’establishment politico, il che non ne fa necessariamente un campione di buon governo, ma di sicuro un bersaglio più facile.

Tuttavia la sostituzione di Daniele, così estemporanea, frutto di motivazioni del tutto estranee alla cultura, non fa che avallare la pessima fama del leader arancione che non esita a sacrificare uno dei suoi uomini migliori per calcolo politico, senza alcun rispetto per quel mondo che oggi si raccoglie intorno all’uscente.

Come si diceva, il cambio di scena non fa che confermare la vocazione girovaga e autolesionista della città che sul piano della organizzazione della cultura da tempo cerca un suo centro di gravità permanente. Una pratica del vagabondaggio che da Valenzi a De Magistris, passando per Bassolino (con la parentesi non proprio memorabile della Iervolino), da una parte espone una produzione effervescente in varie discipline, con molti segmenti di eccellenza; dall’altra non fa che azzerare e distruggere quel poco che si è costruito.

Come in un inesorabile mito di Sisifo il quale sarà pure espressione di postmodernità, ma ripropone la solita instabilità permanente. In tutto ciò, la risposta dell’area critica napoletana preferisce rifugiarsi in sottili distinguo, in mancati bilanci (vedi Toppi su Repubblica Napoli), come se la cacciata di un assessore si potesse motivare come quella di un calciatore che ha fatto pochi goal; o (come è il caso di Morvillo su Contropiano) in una accusa sommaria di “negligenza”, che tutto sommato ne giustifica l’uscita.

Insomma, mentre salta per aria un settore tra i più importanti di Napoli, ci si impegna nei soliti arzigogoli, non comprendendo che la perdita di un assessorato che ha compensato la scarsità di mezzi con la contiguità con il mondo della cultura; che non ha alimentato il solito nominificio, non ha dilapidato risorse per accrescere il proprio potere personale (vedi alla voce Regione Campania), è un danno impagabile.

E la mossa di De Magistris, comunque la si voglia guardare, è solo un insensato, imperdonabile errore. Non perché si debbano annoverare chissà quali imprese, ma perché nel bailamme selvaggio della politica attuale, la qualità delle relazioni umane, l’idea della politica come servizio incarnata da Daniele, sono il vero baluardo di ciò che resta della cultura.

Non c’è bisogno di rispolverare Benjamin per questo; per capire l’incalzare della trasformazione della produzione culturale in bene di consumo di massa; o la turistizzazione massiccia delle città verso drammatiche Disneyland come sta capitando a Napoli o anche nella provincia (vedi kermesse delle luci di artista salernitane). Sagre di massa dove si divora oltre al baccalà, il cibo della memoria, della identità e della storia nobile di un luogo.

Così il prodotto culturale si trasforma in merce e la cultura o è utile alla politica, al consenso e all’arricchimento, altrimenti non serve. O, se proprio vogliamo, deve “dareLuciana Libero una scossa”, (come ha scritto lo scrittore Virgilio sul Corriere del Mezzogiorno) come se non ne avessimo di già abbastanza.

Ha scritto Aldo Masullo a proposito di questa vicenda, che Nino Daniele “ha portato nella vita amministrativa e nella organizzazione di un assessorato quella gentilezza d’animo che non è cortesia banale, ma la raffinatezza del gusto, della sua funzione più alta dentro la vita quotidiana delle persone”. 

La cultura di una città è appunto la vita quotidiana delle persone che si intreccia con l’unicità e la straordinarietà del fatto culturale. Quindi, in tal senso, l’assessore Daniele è stato un ottimo assessore alla cultura, perché ha dato un elemento di sensibilità e di argine nella massificazione.

Di fronte a questo non ci sono né se né ma. Il nomadismo avrà anche il pregio di abolire la distinzione tra élite istruite e manifestazioni popolari di massa – di cui il turismo rappresenta la maggiore espressione – ma alla fine, come scriveva Camus, lascia Sisifo ai piedi della montagna.

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