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Libia-USA. Quando Gheddafi era un amico

Le relazioni tra Washington  Tripoli non sono andate come avrebbero voluto gli ultimi presidenti americani. Soprattutto per ciò che riguarda l’accesso delle multinazionali Usa all’oro nero libico.

«Sono molto contenta di dare il benvenuto al ministro Gheddafi qui al Dipartimento di stato. Apprezziamo profondamente le relazioni fra Stati uniti e Libia. Abbiamo molte opportunità per approfondire e allargare la nostra cooperazione. E desidero ardentemente sviluppare le nostre relazioni. Quindi, Signor Ministro, le do il più caloroso benvenuto»: con queste parole, il 21 aprile 2009, la segretaria di stato Hillary Clinton accoglieva Moutassim Gheddafi, uno dei figli di Muammar Gheddafi, in veste di consigliere per la sicurezza nazionale. E si faceva fotografare mentre, sorridente, gli stringeva calorosamente la mano tra le bandiere statunitense e libica. Senza preoccuparsi tra l’altro della pessima fama di Moutassim, ricco playboy internazionale e violento con la moglie.

Non sono passati nemmeno due anni, e la stessa Clinton «scopre» che quella di Gheddafi e della sua famiglia è una dittatura e ne chiede l’immediata destituzione in nome della «democrazia». Che cosa è cambiato? Le relazioni con la Libia, evidentemente, non sono andate come avrebbero voluto a Washington. Soprattutto per ciò che riguarda l’accesso delle multinazionali Usa all’oro nero libico.
La Libia possiede riserve di petrolio stimate in circa 60 miliardi di barili, le maggiori dell’Africa, il doppio di quelle statunitensi. I costi di estrazione sono tra i più bassi del mondo: poco più di un dollaro al barile, venduto a oltre 100 dollari sui mercati internazionali. La Libia possiede inoltre riserve di gas naturale stimate in circa 1500 miliardi di metri cubi. Le compagnie che hanno avuto i contratti più vantaggiosi dalla National Oil Corporation libica sono quelle europee (tra le quali l’Eni) cinesi e russe. Quelle statunitensi sono rimaste invece ai margini o hanno perso terreno. La Chevron e la Occidental Petroleum, che si occupavano della prospezione di giacimenti di petrolio e gas, hanno deciso nell’ottobre 2010 di non rinnovare i loro contratti. Se li è accaparrati, un mese dopo, la compagnia tedesca R.W. Dia.
Quando subito dopo è scoppiata la rivolta popolare in Nord Africa, a Washington è scattato l’allarme: gli Stati uniti rischiavano di veder uscire dalla propria sfera d’influenza paesi d’importanza strategica come l’Egitto. Per questo il presidente Obama ha premuto per una «ordinata e pacifica transizione» dell’Egitto che, mettendo da parte l’ormai insostenibile Mubarak, trasferisse il potere ai vertici delle forze armate legati a doppio filo con gli Usa.
Quando invece è scoppiata in Libia la rivolta popolare contro il regime di Gheddafi, trasformatasi in guerra civile in seguito alla spaccatura del gruppo dirigente (già preparata), l’amministrazione Obama ha gettato benzina sul fuoco preparando le condizioni per l’intervento militare Usa/Nato, richiesto in particolare dalla Clinton. La segretaria di stato incontrerà la prossima settimana Mustafa Abd al Jalil, già ministro della giustizia con Gheddafi, oggi presidente dell’organo politico dei ribelli. Se emergerà in Libia un «governo rappresentativo» – ha annunciato a Washington il consigliere per la sicurezza nazionale Tom Donilon – gli Stati uniti gli trasferiranno i 32 miliardi di dollari confiscati al regime di Gheddafi, che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia».
Un futuro – quello che hanno in mente a Washington ma anche a Parigi e Londra – in cui siano gli Stati uniti e le maggiori potenze europee, soprattutto Francia e Gran Bretagna, ad avere in mano la ricchezza energetica libica, possibilmente attraverso la privatizzazione della compagnia petrolifera nazionale.
Potrebbero così controllare il rubinetto energetico, da cui dipende in gran parte l’Europa e si approvvigiona in misura crescente anche la Cina. In quel caso qualsiasi governo libico sarebbe definito «rappresentativo» e avrebbe l’attestato di «democratico». Sta al popolo libico conquistare il proprio futuro di democrazia e indipendenza.

Giornalista. Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo sul Manifesto

 

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