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Uccidere Gheddafi, l’unica speranza degli umanitari

  Tutte categorie che valgono per il satrapro Gheddafi – che dopo più di 40 al potere se ne doveva andare prima, anche se non tutto quello che ha fatto in questi 40 anni è stato, come si dice adesso, malvagio -, non valgono per altri satrapi. Per lo yemenita Ali Abdullah Saleh, per gli al-Khalifa, gli sceicchi o emiri o come diavolo si chiamino padroni del Bahrein. Saleh è da più di 30 anni al potere, spara sui manifestanti «pacifici» , ma lo Yemen è troppo «cruciale» per la guerra degli Stati uniti a al-Qaeda per poterlo mandare a mare sull’onda dei «valori universali». E il Bahrein, una fragile intercapedine fra l’Arabia saudita, filo-americana e iper-isalimista (l’unico stato con gli Emirati arabi uniti, altro «soccorritore fraterno» del Bahrein, ad avere riconosciuto il regime dei taleban in Afghanistan), che è la sede della quinta flotta Usa, a poche decine di chilometri dal diavolo sciita iraniano. Per cui qualche decina di morti sulla piazza della Perla di Manama o nel centro di Sanaa ci possono stare, morti per l’umanitarismo. E anche la richiesta di un «aiuto fraterno» ai sauditi e al Consiglio di cooperazione del Golfo, gli stessi che hanno chiesto – insieme alla Lega araba e alla Organizzazione della congerenza islamica – l’imposizione di una no-fly zone sulla Libia e la concessione, quale si evince dalla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza, di «tutti i mezzi» necessari (che la Francia ha già iniziato a usare) per «proteggere i civili» della Libia, alle cui sorti sono in tutta evidenza, petro-sceicchi e occidentali, molto sensibili. Chiedere un aiuto fraterno rientra nel diritto di ogni stato, ha rassicurato la signora Clinton. Ma quando a chiederlo (all’Urss) erano i governi (real)comunisti dell’Ungheria o della Cecoslovacchia la si chiamava invasione (e non solo da destra).
Ora tocca alla Libia. Gheddafi – come Mubarak e Ben Ali – è stato travolto dall’onda della rivolta, e se ne deva andare. E’ buono che se ne vada, più di 40 anni al potere sono troppi per chiunque. Ma – il vecchio e sempre valido doppio standard – è inaccettabile che a ergersi a maestri di democrazia e a scatenare la «guerra umanitaria» siano gente come Sarkozy e Cameron, come lo stesso Obama (o se vogliamo vedere la sua faccia meno simpatica, Hillary Clinton) e i Saud dell’Arabia saudita.
Per non parlare dell’Italia. L’Italia, quella del presidente Napolitano e quella dell’impresentabile governo Berlusconi o di Benito La Russa che sbava per riconquistare la quarta sponda. E neanche quella della pseudo-sinistra di Bersani (che auspica «un ruolo attivo» nell’attacco) o di D’Alema (a cui non è bastato l’intervento umanitario contro la Serbia e il Kosovo).
1911-2011, cento anni dopo siamo di nuovo lì, in Libia. Solo questo centenario dovrebbe spingere qualsiasi governo o politico italiano dotato di un minimo di memoria e di decenza a chiamarsi fuori: tutti possono attaccare la Libia – di Gheddafi o chiunque altro – per ragioni «umanitarie» o più prosaicamente petrolifere, eccetto l’Italia. L’Italia dovrebbe chiamarsi fuori.
L’unica speranza, ora, per gli umanitari è di far fuori Gheddafi al più presto e al primo colpo.. Perché se no sarà un grande casino. E questa volta alle porte di casa.

 

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E l attacco al rais spacca i pacifisti
Sit-in a Roma. Ma la no fly zone piace a molti
Marinella Correggia
ROMA
Nella romana piazza Farnese, sede diplomatica di Sarkozy, ieri nella prima manifestazione contro questa quinta guerra occidentale in un ventennio c’erano gli Statunitensi contro la guerra,la Rete Disarmiamoli, la Rete dei Comunisti, Radio Città aperta, Rifondazione, il Pdci, i sindacati di base Usb e Cobas e l’associazione vegetariana Uva. Un centinaio di persone. Altre si sono riunite ieri a Milano e a Bologna. E ci si prepara a protestare davanti a sedi italiane se nel centesimo anniversario della colonizzazione libica anche il tricolore vorrà festeggiare i suoi 150 anni a suon di bombe.
«Non esistono guerre umanitarie. Onu Nato assassini» recitava un lenzuolo. Gli interventi al megafono hanno denunciato «l’incredibile propaganda che ha preparato l’intervento sin dai primi giorni, con tanto di notizie di fosse comuni, bombe sulle città, soldati libici che attaccavano gli ospedali…tutto poi smentito, ma ormai la cosa era passata». Commentava Sergio Cararo: «Dicono di voler proteggere i civili? Ma come sempre i due pesi due misure sono chiarissimi; pensiamo ai continui attacchi alla popolazione di Gaza, al massacro in Yemen e ai morti sotto il fuoco degli eserciti del Bahrein e quello invasore dell’Arabia Saudita. In Libia in realtà non si tratta di manifestazioni di civili contro cui si è aperto il fuoco, è piuttosto una guerra interna». Per la Rete Disarmiamoli (vedi il loro appello) «gli eventi dimostrano che il conflitto libico è ben diverso dalle rivolte scoppiate negli altri paesi arabi. Con ogni probabilità siamo di fronte ad un gruppo rappresentativo di alcune tra le tribù libiche in conflitto, disposte – per avere un ruolo nel futuro di quel paese – a divenire cavalli di Troia per la frammentazione della Libia in funzione degli interessi occidentali». Adesso poi che il nucleare è impresentabile, benedetto petrolio…
E chi, a sinistra e nel mondo tradizionalmente pacifista, stavolta non c’è? «Sono disinformati. Fra l’altro non capiscono che questo intervento con pretesto umanitario è fatta anche per piegare e rovinare le rivolte arabe. Loro pensano il contrario».
E già. Sul sito www.perlapace.it della Tavola per la pace, campeggiava ieri in apertura (accanto a notizie sui morti civili in Afghanistan, alla vendita delle bandiere della pace e ai risultati di un sondaggio «che fare per fermare la repressione in Libia?» in cui oltre il 26% delle risposte è per la no-fly zone, il 62% è per usare la pressione politica, il 10% dice di non far nulla per non far più danni, il resto non so), il commento di Antonio Papisca docente diritti umani e pace a Padova. Che fra l’altro scrive: «La risoluzione 1973 è complessa. Si presta a molte ipotesi di gestione concreta. (…) Va collocata in un contesto caratterizzato dal fatto che c’è la domanda esplicita di intervento della Comunità internazionale da parte di una popolazione che rivendica il diritto di autodeterminarsi liberamente, c’è la pressione dell’opinione pubblica internazionale, c’è la esplicita richiesta di Organizzazioni regionali quali la Lega Araba, l’Unione Africana, la Conferenza Islamica. E c’è la nuova politica del Presidente Obama, con la sua opzione per il multilateralismo istituzionale e per il ruolo prioritario delle Nazioni Unite». In realtà l’Unione Africana non si è allineata. Comunque il commento termina con: «Ancora una volta, l’Unione Europea ha esitato e non ha parlato a una sola voce: la Germania è stata il giocatore scettico ed esitante». La posizione dell’Arci (www.arci.it) recita così: «Alla democrazia in Libia non serve l’avventurismo militare: aumentare la pressione politica per il cessate il fuoco»; ma poi leggiamo anche «da settimane i nostri amici libici imploravano una azione della comunità internazionale e la no-fly zone, per impedire al dittatore di stroncare la rivolta. Oggi, mentre Gheddafi ha già riconquistato gran parte del paese, l’Onu la ha dichiarata e la gente di Bengasi festeggia». Bene. Insomma, gli insorti vanno sostenuti, la popolazione civile va difesa, Gheddafi va fermato, ma non con la guerra.
A scorrere un po’ in giù il sito della Cgil (www.cgil.it), dopo le notizie sulle notti tricolori sindacali, troviamo il convinto appoggio, in un comunicato del 18 marzo, alla no-fly zone.

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