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Fukushima: radioattività alle stelle, acqua imbevibile

I livelli di iodio radioattivo in mare, vicino alla centrale, sono 1.250 più alti della norma. Lo ha reso noto oggi l’Agenzia giapponese della sicurezza nucleare, che ha precisato: i tassi sono stati misurati dalla Tepco, il gestore della centrale danneggiata, a circa 300 metri al largo del reattore 1 dell’impianto. «Se bevete 50 centilitri di acqua corrente con questa concentrazione di iodio, raggiungerete in un sol colpo il limite annuale che potete assorbire. È un livello relativamente elevato».

La situazione comunque è stabile e «non peggiora, ma c’è ancora molto lavoro da fare», ha detto il capo di gabinetto, Yukio Edano, nel corso della breve conferenza stampa del pomeriggio.

In Italia, invece, laciamo enti scientifici di primaria importanza in mano a gente che non sa distinguere gli eventi naturali o le catastrofi provocate dall’ansia di profitto dalla “volontà di dio”.

Secondo Roberto de Mattei, vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), infatti, le grandi catastrofi sarebbero «una voce terribile ma paterna della bontù di Dio» e «talora esigenza della giustizia di Dio, della quale sono giusti castighi». Parole pronunciate nei giorni scorsi – guarda un po’ la coincidenza – dai microfoni di Radio Maria. Oltre mille cittadini e ricercatori hanno immediatamente aderito a una petizione online per chiedere le dimissioni di De Mattei. Il presidente del Cnr, Luciamo Maiani, ha pubblicato una precisazione ufficiale sul sito dell’ente, dove si afferma che «i contenuti dell’intervento del prof. de Mattei non coinvolgono in alcun modo il Cnr».

Si traccia anche un bilancio dell’estensione dei danni dello tasunami dello scorso 11 marzo. L’oceano ha travolto e raso al suolo una zona di 470 chilometri quadrati lungo la costa. Lo riferisce l’emittente NHK World basandosi su un rapporto della società specializzata Pasco, elaborato sulla base dei dati provenienti dai satelliti. La costa maggiormente colpita è stata quella della prefettura di Miyagi (circa 300 chilometri quadrati), seguita da quella di Fukushima (circa 110 chilometri quadrati) e quella di Iwate (circa 50 chilometri quadrati). L’ultimo bilancio del sisma e dello tsunami dell’11 marzo parla di 10.102 morti accertati ed oltre 17.000 dispersi.

 

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Alleghiamo qui due articoli da “il manifesto” del 26 marzo 2011. Uno sulla situazione in Giappone, un altro sull’attendibilità della Tepco, l’ultimo di analisi scientifica

 

Rischi imprevedibili
di Diana Santini

KESENNUMA
Forse non c’erano alternative, nell’emergenza l’acqua di mare era l’unica risorsa possibile per scongiurare il meltdown. Ma una delle possibilità è che sia stato proprio il sale, cristallizzatosi sulle superfici dell’impianto, ad aver ritardato il raffreddamento dei reattori critici della centrale nucleare di Fukushima Daiichi. Dopo quasi due giorni di blocco, in seguito al gravissimo incidente occorso ieri a tre dei tecnici al lavoro nella centrale, nel pomeriggio di ieri sono riprese le operazioni di raffreddamento. Finché non saranno ripristinate le strumentazioni, l’impianto non può restare senza essere innaffiato abbondantemente per troppe ore, pena il disastro. La Tepco ha fatto sapere che ha iniziato a versare acqua dolce nei reattori uno e tre, quelli cioè che hanno mostrato segnali più critici nelle ultime ore. Perdite di acqua radioattiva, comunque, si sono registrate ieri anche negli altri due reattori attivi, e cioè il due e il quattro.
«Le operazioni procedono a rilento a causa della pericolosità del sito», ha scritto la Tepco in una nota. La verità è che lavorare al raffreddamento e al ripristino della corrente è un compito che può costare la vita. I tre tecnici feriti ieri sono in condizioni gravissime: sarebbero stati esposti, secondo l’agenzia Kyodo, a 2-6 sievert, cioè a un livello letale di radiazioni. I feriti o contaminati dall’inizio delle operazioni alla centrale sono ormai ventiquattro e le condizioni di lavoro sembrano non fare altro che peggiorare.
Pozze di acqua contaminata profonde da quaranta centimetri a un metro e mezzo, intanto, sono state individuate intorno a tutti e quattro i reattori. Non si è capito ancora da dove sia uscita quell’acqua che, analizzata, è risultata avere livelli di radioattività anche 10mila volte superiori al normale, oltre ogni ragionevole aspettativa. Livelli, dicono molti esperti, compatibili con una parziale fusione delle barre combustibili. E quindi: almeno un reattore, il numero tre (il più pericoloso perché alimentato a mox, il combustibile atomico con uranio e plutonio), potrebbe essere al momento ingestibile, perché in caso di fusione è difficilissimo il raffreddamento e quasi impossibile la neutralizzazione dell’impianto. Non solo: il fatto che i tre tecnici siano stati raggiunti dall’acqua radioattiva in sala di controllo, significa che quell’acqua, usata per raffreddare le barre all’interno del vessel, viaggia liberamente dentro gli impianti. Dunque, o c’è qualche tubo di collegamento rotto, o il vessel è danneggiato, e quindi le barre di combustibile in fusione sono praticamente a cielo aperto.
Cresce anche la preoccupazione per la contaminazione. Rientrato parzialmente l’allarme a Tokyo, tracce di radioattività nell’acqua del rubinetto sono stati rinvenute in altre prefetture della zona. Oggi il governo ha aperto all’evacuazione volontaria di chi risiede entro 20-30 km dalla centrale, un annuncio che rischia di scatenare il panico in chi da quasi quindici giorni si sente dire che tutto è a posto e che è sufficiente starsene rintanati in casa con le finestre chiuse per proteggersi. Ad aumentare l’allarme sono anche i risultati delle analisi su legumi provenienti da Tokyo, in cui per la prima volta è stato riscontrato un livello superiore al limite consentito di radioattività. Si tratterebbe di un legume a foglie verdi, il komatsuna, coltivato in un centro ricerche a Edogawa, alla periferia della capitale. E anche il mare è avvelenato, dicono le ultime rilevazioni, fino ad almeno 30 chilometri dalla costa.
«La situazione rimane altamente imprevedibile», ha ammesso, a ormai due settimane dalla tragedia il premier Naoto Kan. «Lavoriamo per evitare che peggiori, ma bisogna stare attenti», ha spiegato nel corso di una conferenza stampa. Una conferma indiretta dello stato di precarietà della centrale verrebbe anche dalla Nisa, l’Agenzia per la sicurezza nucleare. Secondo quanto riferito dal quotidiano Asahi, l’agenzia starebbe valutando se riclassificare, per la terza volta, l’incidente, portandolo al grado «sei» su un massimo di sette. Molti istituti internazionali lo considerano già tale, nessuna novità quindi, perlomeno finché non ci saranno nuove e più precise misurazioni. Ma, se confermata, l’ammissione sarebbe già di per sé significativa.
Quando finirà tutto questo, nessuno per ora lo sa, neppure Kan, che ha candidamente dichiarato, nella stessa conferenza stampa, di non avere idea di quando si potrà parlare di emergenza rientrata. Impossibile, per ora, essere ottimisti.

 

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Sotto accusa il sistema di sicurezza
Luigi Vercotti
TOKYO
«Ogni cosa può essere assicurata», ha spiegato Nikolaus von Bomhard, vertice della compagnia assicurativa tedesca Munich Re, «il costo della polizza dipende da vari fattori tra cui la possibilità che un rischio si concretizzi e i danni che si intende coprire». «I reattori nucleari – ha tuttavia puntualizzato von Bomhard – rappresentano un’eccezione: di fronte a un incidente nucleare nessuno è in grado di valutare la reale gravità del danno che potrebbe verificarsi».
In Giappone – dove la convivenza con terremoti e tifoni ha istillato nella popolazione un proverbiale fatalismo – l’elaborazione dei «peggiori scenari ipotizzabili» rientra nella prassi di controllo dei 55 reattori in funzione nel paese. Non è un caso se il controllo delle strutture è affidato a una pluralità di soggetti, con un indice di rilevanza direttamente proporzionale alla loro vicinanza al governo.
Il primo livello di monitoraggio è affidato alle aziende elettriche responsabili della gestione dei reattori; Tokyo Denryoku, la famigerata Tepco, è l’azienda a cui fa capo l’intera rete elettrica del Nord Est, inclusa l’area urbana di Tokyo. Ad assistere Tepco nella sorveglianza del funzionamento dei reattori sono in primo luogo la Commissione per l’Energia Atomica (Aec) e l’Agenzia per la Sicurezza Industriale e Nucleare (Nisa), succursale del Ministero dell’economia, del commercio dell’industria. Il secondo livello di controllo è affidato all’Organizzazione indipendente per la Sicurezza Nucleare in Giappone (Jnes), il cui principale compito è quello di operare controlli più approfonditi sui dati forniti dalle aziende elettriche e valutare il loro grado di aderenza agli standard di sicurezza in vigore.
Tepco, Nisa e Jnes, già prima dello tsunami stavano lavorando a un piano coordinato per una rivalutazione degli standard alla luce della riforma delle norme antisismiche elaborata da Aec e Nisa nel 2006. Il sistema di coordinamento tra i tre soggetti è tuttavia oggetto di forti critiche: Jnes non dispone infatti di altri dati oltre a quelli forniti direttamente da Tepco e Nisa.
«Tepco, Nisa e Jnes stavano già valutando congiuntamente l’effettiva applicazione delle nuove norme, sfortuna ha voluto che proprio in questo momento il disastro abbia colpito la centrale di Fukushima Daiichi», ci spiega al telefono un portavoce di Jnes. «In questo momento – annuncia – esponenti del governo e di Nisa stanno elaborando nel quartier generale di Tepco un documento unitario con nuove disposizioni in materia di sicurezza». Che cosa sa Jnes dei nuovi piani? «Al di là di alcune linee fondamentali nulla. Sul documento vige il massimo riserbo».
Il Jnes ha pubblicato lo scorso dicembre i risultati di un’indagine sugli standard di sicurezza del reattore 4 della centrale, in cui sono state rilevate inesattezze nello studio dei processi di invecchiamento delle strutture. Lo studio tocca un nervo scoperto, soprattutto in considerazione delle accuse di arretratezza tecnica spiccate da Mitsuhiko Tanaka – un ingegnere che ha lavorato alla realizzazione dei reattori – e riprese dalla stampa internazionale.
Nisa è tassativa su questo punto: «Rispetto all’attuale situazione di emergenza – ci assicura un portavoce – posso dire che non vi è relazione tra l’invecchiamento delle strutture e gli effetti dello tsunami». Resta in dubbio come l’agenzia possa emettere una sentenza definitiva quando l’emergenza impedisce di fatto un’analisi approfondita dei danni strutturali.
«Lo tsunami – spiega Ban Hideyuki, direttore del Centro di Informazioni sul Nucleare per i Cittadini – ha messo fuori uso vari dispositivi dalle centrale, in primo luogo il sistema elettrico e i generatori di emergenza. Sebbene tali punti deboli fossero già noti, gli elevati costi della messa in sicurezza hanno fatto sì che non si rispondesse a queste necessità». «Nel loro lavoro di indagine – aggiunge Ban – Nisa e Jnes si sono soffermati su alcuni problemi specifici come l’ossidazione delle tubature. Che cosa può accadere se è però l’intero sistema a subire un’avaria? Questa possibilità non è stata evidentemente presa in considerazione».
Il reattore 1 della centrale di Fukushima Daiichi è stato realizzato nel 1967 per resistere ad un cataclisma come lo tsunami che colpì le coste del Cile nel 1960. Recenti studi sismologici hanno tuttavia previsto la possibilità di un più intenso sisma al largo delle coste giapponesi. «Lo tsunami che ha colpito la prefettura di Fukushima è stato di fatto previsto – afferma Ban – Pur non sapendo quando sarebbe avvenuto, uno scenario simile è stato preso in considerazione per definire i nuovi standard antisismici. Dal momento che Tepco non ha voluto accollarsi i relativi costi è accaduto quello che è accaduto. Tepco dice che un evento come questo tsunami non si sarebbe mai potuto prevedere; la realtà è che avrebbero dovuto e potuto prevederlo».

 

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Lacune progettuali e di controllo
Giorgio Ferrari*

Passato il sensazionalismo dell’incidente a Fukushima (ma non l’emergenza), l’attenzione dei grandi media si sposta sulle sue conseguenze, sperando di archiviare il secondo peggiore incidente della storia nucleare con uno sbrigativo «tutto sommato poteva andare peggio». È un attegiamento assolutamente da evitare perché ci sono aspetti in questa vicenda che non possono essere messi da parte in attesa delle inchieste ufficiali.
Deficienze progettuali e di controllo
I reattori delle 6 unità di Fukushima sono ad acqua bollente (Bwr) di progettazione General Electric (Ge) con contenimento del Tipo Mark 1 e sono entrati in servizio tra il 1971 e il 1980. Già nella prima metà degli anni ’70 questo tipo di contenimento era stato ritenuto insufficiente a garantire la sicurezza in caso di perdita di refrigerazione al nocciolo e nel 1986 Harold Denton, capo della sicurezza della Nrc (Agenzia per la sicurezza statunitense) aveva dichiarato che in tale circostanza c’era il 90% di probabilità che il sistema di contenimento Mark 1 si rompesse. Le pressioni dell’industria nucleare Usa e in particolare della General Electric, impedirono la messa in mora di questi reattori: il compromesso raggiunto con la Nrc comportava l’introduzione di un sistema di ventilazione in atmosfera (venting) per far diminuire la pressione interna al contenitore primario, riconoscendo implicitamente l’inadeguatezza del sistema di contenimento, e consentendo – in caso di incidente – di scaricare gas radioattivi nell’ambiente anche se era previsto un sistema di filtraggio. Non è dato sapere al momento se i reattori di Fukushima siano stati equipaggiati con questo sistema (ma è certo che rilasci in atmosfera sono stati effettuati ripetutamente) anche perché la Nisa (Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese) è più un organismo consultivo che una autorità di controllo (le cui funzioni sono invece demandate al Meti, Ministero del commercio e dell’industria) e quindi le potenti imprese elettronucleari come la Tepco, che tra il 2002 ed il 2007 ha omesso informazioni rilevanti sull’andamento di incidenti analoghi, hanno ampi margini di manovra.
Altro aspetto grave messo in luce da questo incidente è che la collocazione delle piscine del combustibile irraggiato al di fuori del contenitore primario può portare al rilascio in atmosfera di radioattività proveniente dal danneggiamento del combustibile, come è successo al reattore n.4 il cui tetto è stato distrutto dallo scoppio di idrogeno formatosi per mancata refrigerazione. Questo aspetto potrebbe avere conseguenze sulla revisione dei criteri di progetto di tutti i reattori (Bwr e Pwr) visto che anche gli ultimissimi tipi hanno la piscina combustibile collocata al di fuori del contenitore.
Deficienze di esercizio degli impianti
È incredibile che l’alimentazione elettrica agli impianti sia stata ripristinata solo dopo 8 giorni dall’incidente. Per quanto il terremoto possa aver distrutto parte della rete elettrica e messo fuori servizio i diesel di emergenza, non si spiega come la Tepco non abbia provveduto a trasportare in loco gruppi di alimentazione mobili per rendere operative le sale controllo dei reattori, delle quali, comunque, sarebbe dovuto esistere un duplicato in zona più distante e protetta dell’impianto. Altrettanto incomprensibile è, non che sia venuta a mancare l’acqua di raffreddamento nelle piscine del combustibile irraggiato, ma che ciò non sia stato rilevato in tempo dalla Tepco.
E del sistema elettrico giapponese
Per ciò che riguarda il complesso degli impianti nucleari giapponesi coinvolti nel sisma, la situazione è più critica di quanto si dica perché se a Fukushima Daiichi tre reattori su sei sono andati distrutti e non saranno più utilizzabili, altri impianti hanno subito danneggiamenti meno gravi ma non per questo potranno essere rimessi in funzione prima di accurate verifiche. Tra questi ci sono: Fukushima Daini; Onagawa; Kashiwazaki-kariwa di proprietà della Tepco, e poi Higashidori e Tokai di proprietà della Tohoku, per un totale di poco più di 20.000Mw. Inoltre il sisma ha danneggiato anche numerose centrali termiche e qualcuna idrica: stime preliminari parlano di altri 8000-11.000 Mw che non potranno essere ricostruiti prima di qualche anno: in totale quindi il Giappone dovrà far fronte nell’immediato a un deficit di potenza di circa 30.000 Mw (a fronte di una potenza totale installata di 281.000 Mw) che si ridurrà nel corso dei prossimi anni in base ai programmi di ricostruzione e riavvio degli impianti.
Un’emergenza seria indubbiamente, ma che poteva essere affrontata più facilmente se non fosse per l’impossibilità di alimentare le regioni del nord-est (quelle più colpite dal sisma) per l’esistenza di due reti elettriche con frequenze diverse: nel nord-est a 60 Hertz e nel sud-ovest a 50 Hertz che si interfacciano all’altezza della zona metropolitana di Tokyo. Questa differenza impedisce che l’energia venga trasferita da una rete all’altra a meno di convertirne la frequenza con apposite macchine di cui attualmente ne esistono tre in Giappone con capacità totale di conversione di soli 1000Mw. Di qui la preoccupante previsione di razionamenti di lunga durata e conseguente forte perdita di produzione industriale che si sta ripercuotendo sul mercato mondiale dell’elettronica e della componentistica per auto. La forte dipendenza dal nucleare per la produzione di elettricità (40% circa) unita alla sconcertante mancanza di una rete elettrica unificata, rischiano di mettere in ginocchio il Giappone ben oltre i già gravi danni del terremoto.
I timori della Francia
La Francia è il paese che più ha da temere dal disastro nucleare giapponese. In primo luogo la sua dipendenza dal nucleare è quasi doppia di quella del Giappone e anche se non è un paese così rischiosamente sismico, un evento naturale che abbia analoghe conseguenze di un terremoto non può essere escluso. Cosa accadrebbe alle sue centrali nucleari in caso di forte e prolungata siccità, visto che, a differenza del Giappone, la Francia le ha quasi tutte dislocate lungo i fiumi? A differenza degli impianti convenzionali, le centrali nucleari mal sopportano variazioni di carico e ogni loro arresto non programmato può sempre portare a situazioni di emergenza. Inoltre per quanto sia stata tenuta sotto silenzio dalla Aiea (l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), la presenza di combustibile al plutonio nei reattori 3 e 4 di Fukushima suscita forte preoccupazione dato che la Francia ne ha fatto un elemento chiave della sua politica nucleare. Infine, se l’industria nucleare nippo-americana risentirà dell’incidente di Fukushima, quella francese rischia ancora di più: Areva è in grosse difficoltà a causa dell’Epr, criticato in Europa, rifiutato nel Golfo Persico, in Canada e negli Usa. Lo ha capito anche Edf che l’Epr (il reattore nucleare europeo ad acqua pressurizzata) da 1600Mw è un «bidone» e sta già lavorando a un reattore di taglia più piccola per risollevare l’immagine del nucleare francese, non rendendosi conto che nei prossimi anni la Francia sarà chiamata a pagare costi pesantissimi proprio a causa della monocultura nucleare.
*Fisico, esperto di combustibile nucleare

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