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Stato d’emergenza e riforme, Bashar non rompe i tabù. Appetiti sulla Siria

 Michele Giorgio

Acclamato dalla popolazione che per la maggior parte lo sostiene, applaudito a ripetizione dai deputati, Assad è stato piuttosto vago sulle riforme che intende attuare dopo le proteste senza precedenti a Daraa e Latakiya e all’indomani delle dimissioni del governo.

E ha anche stigmatizzato, come altri leader arabi, «complotti» stranieri e delle tv satellitari, che sarebbero all’origine delle proteste dei giorni scorsi in cui decine di dimostranti sono stati uccisi dalla polizia. «Non siamo isolati dal resto della regione, ma non siamo una copia degli altri paesi», ha detto Assad definendo i disordini «una cospirazione, differente nella forma e nel momento prescelto da ciò che succede altrove nel mondo arabo». Ha poi avvertito che il caos danneggia la difesa della causa palestinese (in Siria ci sono centinaia di migliaia di profughi e gli uffici delle principali fazioni) e non ha smentito le affermazioni della sua consigliera Butheina Shaban, che aveva addossato proprio a «elementi palestinesi» la responsabilità degli scontri violentissimi divampati a Latakiya.
Dopo aver pronunciato una estenuante introduzione – celeberrime quelle di suo padre e predecessore Hafez – e spiegato che la mancata realizzazione delle riforme è stata la conseguenza di avvenimenti internazionali (Intifada palestinese nel 2000, attentato alle Torri Gemelle nel 2001, l’invasione dell’Iraq nel 2003, le pressioni sulla Siria dopo l’assassinio di Rafiq Hariri nel 2005, l’attacco israeliano al Libano nel 2006, e così via), Bashar Assad si è limitato ad affermare che le priorità del nuovo esecutivo dovranno essere la lotta alla disoccupazione e alla corruzione: «Se vi sono dei riformatori, li appoggeremo: siamo totalmente favorevoli a delle riforme, è il primo dovere di uno Stato; ma non siamo favorevoli al dissenso». Dunque disponibilità a soddisfare le richieste della popolazione ma non a «tollerare il caos».
Nessun accenno né alla nuova legge sulla stampa, né a quella sul pluralismo politico, né soprattutto alla revoca dello stato di emergenza, in vigore dal 1963 e che limita fortemente le libertà e i diritti dei cittadini, autorizzando inoltre l’arresto di qualunque cittadino, sulla base di semplici «sospetti». Il presidente siriano ha insistito sul fatto che le riforme saranno fatte sulla base della necessità di armonia tra il popolo e il governo, e non come risposta a pressioni esterne.
Al termine del discorso, durato circa un’ora, molti siriani hanno applaudito, convinti che solo il presidente potrà trovare le risposte idonee a risolvere la crisi. Ma la mancata «svolta» è davanti agli occhi di tutti e può avere solo due spiegazioni: o Bashar Assad non è abbastanza forte per riformare in senso più moderno e democratico il paese, o lui stesso è convinto che la difesa del regime e della stabilità deve essere la priorità della Siria anche nei prossimi anni. La crisi però non è terminata, troppe richieste popolari restano insoddisfatte. E infatti la tensione non cala. Ieri sconosciuti hanno aperto il fuoco da un’auto in corsa contro manifestanti in corteo a Latakiya.

 Maurizio Musolino

Roma – Cosa potrà accadere nelle prossime ore in Siria è difficile prevederlo, anche perché sui fatti di questi giorni si intrecciano molti – e diversi fra loro, spesso contraddittori – fattori. Di sicuro le proteste che nei giorni scorsi hanno infiammato le strade siriane fino a portare alle dimissioni del Governo si inseriscono nel più vasto moto di ribellione che ha coinvolto gran parte dei paesi arabi.

Proteste che si sono accese per denunciare condizioni di vita precarie, spesso al limite della sopravvivenza, e di cui il principale responsabile è la crisi economica mondiale. Una crisi che in questa regione si è sommata agli effetti devastanti che gli abbiamo regalato noi dall’opulento Occidente: in parole povere in questi mesi i cosiddetti paesi avanzati hanno cercato di scaricare sui paesi più poveri alcuni degli effetti della crisi: la disoccupazione, la sospensione delle rimesse, le speculazioni su alcuni prodotti come le farine.

Ma sarebbe sbagliato non vedere come a questo si sia man mano sommata una sempre crescente richiesta di democrazia. Una democrazia astratta non meglio definita, che spesso si è concretizzata con la richiesta di un cambiamento della classe dirigente che da decenni governa la maggior parte dei paesi della regione. Qui sarebbe opportuno aprire una discussione veramente libera sul concetto di “democrazia” nel XXI secolo, ma non è questo il luogo. Di sicuro credo che nessuno possa identificare la “democrazia” esclusivamente sui nostri modelli. Altrimenti davvero la vicenda Berlusconi non avrebbe insegnato nulla. Quindi siamo di fronte a rivolte per il pane e il cambiamento. Insisto a chiamarle rivolte, perché di questo si tratta. Le rivoluzioni sono ben altra cosa. Le rivoluzioni presuppongono la volontà di sovvertire un sistema e di dotarsi di classi dirigenti nuove e non colluse con i vecchi regimi. Cosa ben lontana da quello che sta accadendo nei paesi arabi in queste settimane.

Detto questo, occorre sottolineare un altro fattore. Sarebbe sbagliato tacere che in quell’area si sta giocando anche una grossissima partita fra le potenze capitaliste occidentali per il controllo e l’influenza di questi Paesi. Una partita tutta interna alle forze occidentali e in chiave di contrapposizione alla sempre crescente egemonia cinese sul mondo. Ne è dimostrazione l’interventismo della Francia e le divisioni all’interno della stessa Nato. Una battaglia che coinvolge e spesso utilizza anche pezzi dei regimi arabi e in Libia questo è evidente a chiunque non intende chiudersi occhi e orecchie. Non è sicuramente ininfluente il fatto che da mesi in Siria si svolge una durissima battaglia fra chi vorrebbe intensificare le privatizzazioni aprendo ai capitali occidentali e chi mette un freno a queste scelte temendo una perdita di autonomia e quindi di indipendenza. Fatti che hanno scatenato appetiti.

Fatta questa utile premessa, ogni paese ha la sua peculiarità: voglio dire che la Siria non è né l’Egitto, né la Libia. In questi anni la Siria è stato fra i pochi paesi che si sono opposti al dominio Usa nel mondo e ha rigettato i piani di Bush sul “grande medioriente”. Una colpa imperdonabile per alcuni, che adesso potrebbe essere fatta pagare caramente a Bashar Al Assad. Chi è stato a Damasco in questi ultimi anni non ha potuto non vedere un Paese in crescita dove fra la gente si respirava un clima molto diverso da quello che regnava nelle altre capitali arabe. Non era certo il Paese dei balocchi, nessun esempio di “socialismo reale in chiave araba”, ma semplicemente uno stato nazione che cercava la sua strada verso lo sviluppo e il benessere. Con tutti i limiti e gli errori possibili. Limiti ed errori che il popolo siriano deve poter correggere, senza influenze straniere.

Per tutto questo una funzione fondamentale la avrà nelle prossime ore proprio il popolo siriano, che dovrà far sentire la sua voce e assumersi in proprio le responsabilità. Le manifestazioni di oggi in sostegno al presidente sono un segno importante, non minore di quelle che hanno caratterizzato le giornate trascorse. Sono le facce di una complessità reale, dalla quale non possiamo prescindere. Mai.

Infine un ultimo elemento da non sottovalutare: l’aspetto della laicità che è caratteristica della Siria odierna. La Siria è rimasto fra i pochissimi stati laici della regione e questo fa paura e da fastidio a chi spera, dall’Iran a Israele, passando per l’Arabia Saudita di creare stati confessionali in tutta la regione. Questa considerazione legata all’alleanza che si sta determinando fra Fratelli musulmani (islam politico del tutto compatibile con le regole del mercato liberale) e forze neoconservatrici in Egitto (le stesse che per decenni hanno appoggiato Mubarak) sono un campanello di allarme per tutto il mondo progressista e rendono legittimi sospetti che qualcuno voglia strumentalizzare e influire su quanto accade in Siria. Il presidente Bashar dovrebbe annunciare nelle prossime ore importanti aperture democratiche e risposte univoche alla crisi che strozza i lavoratori salariati. Vediamo cosa succede e vediamo la risposta che si darà il suo popolo. Ma non dismettiamo la capacità di analizzare e valutare le notizie che arrivano da quella parte del mondo come da altri paesi al netto delle operazioni di disinformazione che da sempre hanno caratterizzato le sporche manovre neocoloniali.

Infine una considerazione sulle possibili conseguenze di una Siria destabilizzata. E’ impensabile che quello che accade in Siria non abbia riflessi diretti sull’intero Medio Oriente e soprattutto sul Libano. Chi vuole mettere le mani su Damasco da anni ha cercato in tutti i modi di destabilizzare e di influenzare le politiche di Beirut. E mentre in Siria e in Libia si rende artificiosamente paladino dei diritti e della democrazia, in Libano sostiene una organizzazione dello stato a dir poco feudale, tutta basata sulle confessioni. Il popolo libanese sta vivendo anche lui una crisi durissima e il Partito comunista di quel paese è in prima linea a denunciare le politiche neoliberiste che governano l’economia libanese. Ma il Libano – non bisogna mai dimenticarlo – subisce come la Palestina e la stessa Siria una occupazione del proprio territorio da parte di Israele, stato che quotidianamente offende con incursioni aeree lo spazio nazionale libanese. Di questo ne sono al corrente tutti, ma nessuno dice e fa nulla. Nessuno invoca le Nazioni Unite.

Queste considerazioni non vogliono dare ricette o linee. Sono solo personali considerazioni che sottolineano la necessità di avvicinarsi a quanto accade in questi paesi con cautela e realmente senza pregiudizi. Occorre studiare, dotarsi di elementi per comprendere, solo poi potremmo giudicare e decidere da che parte stare. (da Nena News)


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